In mezzo alla pianura padana, tra Busto Arsizio, Legnano e Castellanza, c’è uno spiazzo di parco sul quale si fatica a pensare che possa mai passare il vento. I campi di grano, le strade stanche, le impronte dei cavalli, gli alberi che imbastiscono boschi che spuntano per scomparire nell’arco di una curva, gli scoiattoli che non hanno paura di nessuno e i conigli che di qualcuno hanno paura. È ben curato, accogliente e immobile. È un posto che non ti parla, ma sembra interessato a te.
Il tempo ci scorre con le sue modalità, che non sono svelate. Da lì si vede un cielo enorme, i tralicci dei fili di corrente che sembrano elementi della natura. L’energia che li attraversa è diretta verso i grandi centri abitati, pochi chilometri più a ovest, e sembrano solo antiche fonti dimenticate da chissà quale civiltà. A seguirli ad occhio, è impossibile arrivare alla loro origine.
Inoltrandosi di pochi metri nella strada principale che porta dentro questa macchia verde e gialla, c’è una svolta sulla sinistra. Non tutti la vedono perché non sembra nemmeno ci si possa camminare. Porta in pochi passi ad un cancello sempre aperto che sorge a spezzare un muro che non c’è più, se mai c’è stato. Un cancello sempre aperto che sorge in mezzo al niente.
Appena attraversata questa porta verso nessun luogo, la strada si butta nei campi. Visibile solo dopo un’altra curva, gli alberi a nasconderla, si inizia ad intravedere in lontananza una grande casa divorata dalla natura. O meglio, quel che resta di ciò che un tempo doveva essere una casa, una grande cascina.
I ciuffi di piante fuoriescono dalle sue finestre così copiosamente che sembra quasi che un’esplosione di clorofilla sia avvenuta direttamente dal suo interno secoli fa per espandersi tutt’attorno. Le sue porte a terra sono murate. Ciò che resta del suo tetto è trasformato in corteccia lamierata. Ad avvicinarsi al suo ingresso, sembra che piano piano si debba svegliare. Non tutti possono avventurarsi a tanto, solo chi vuole lei. Quando ha voglia può raccontarti che un tempo sotto al suo tetto andavano e venivano centinaia di persone. A pochi metri di distanza dalla facciata, c’è una grande spiazzo di cemento incastonato nella terra, ad osservare il campo limitrofo. Guardandola da davanti e andando verso destra è possibile scorgere tra i rovi una vecchio recinto che, se ci fai caso, custodisce ancora nitriti.
La Vita Immaginata è una canzone nata di fronte a quella casa. Non osservandola, ma facendomi osservare da lei.
Era un giorno opaco, di diversi anni fa, pochi ma sembrano molti di più. Era estate e faceva caldo. Quell’anno stavo cercando di registrare un disco e di cambiare la mia vita. Ma non ci riuscivo. Correvo nel parco, incontrai un’amica che non vedevo da un po’, ci salutammo, parlammo brevemente e poi continuai a correre. Proprio il giorno prima avevo chiesto a qualcuno di lei, come stava, cosa faceva.
Quell’incontro fortuito, il caldo, la casa diroccata, un disco impossibile, un orario per tornare a casa, prendere la macchina e andare a Milano a cenare con la mia fidanzata, l’idea di un’autostrada ancora sporca della scia di un lavoro in ufficio che avevo lasciato da poco. E tutt’attorno un paese in crisi, macerie come letti, chiese uguali a sale d’aspetto, autobus in fiamme sui giornali.
Tutto si mescolava insieme. Il mio sogno non era chissà quale svolta, pensai, il mio sogno era semplicemente una nuova routine.
Che il concetto di sogno, oltretutto, mi ha sempre infastidito moltissimo. Ciò che di solito chiamiamo sogno dovremmo iniziare a chiamarlo atto. Esiste solo il fare, perché esiste solo il presente. Bukowski, no?
Il cuore della canzone venne concluso quasi interamente in quell’anno. Finii il testo in breve, eccetto che per alcuni dettagli, ma continuai a lavorare sulla produzione e l’arrangiamento per un sacco di tempo.
Praticamente, fino alla scorsa settimana. Ve ne parlerò meglio.
Esce il 29 luglio. È la mia prima canzone dopo tre anni di silenzio musicale.
Nelle prossime settimane Ragnatele diventerà forse un pochino più anarchica! Quel tanto che serve per raccontarvi un po’ delle cose che farò.
Intanto, nell’attesa di far ascoltare questa mia nuova canzone, quest’anno curerò un bellissimo progetto a Woodoo Fest (per chi non lo conosce uno dei festival principali di Varese e dintorni), che ho anticipato qui: è un format di nome Brenwood. Da mercoledì prossimo fino a domenica racconterò il festival dall’interno quasi in tempo reale, con un paio di appuntamenti giornalieri, direttamente dal suo sito. Ma mi sa che qualcosa, perché no, potrebbe sbucare anche da qui. In ogni caso, la prossima settimana vi spiegherò meglio come è nato tutto questo e che significato ha per me.
Cià!
Brennè