Tutto sembra incombere
Trenta minuti al 19. Lo so, ho sbagliato, una piccola avventatezza, un’ingenuità da provinciale sconsiderato. Dovevo prendere il taxi insieme agli altri. Una parte di me forse ci sperava: quattro chilometri e mezzo per arrivare a casa.
Aspettare fermo mezz’ora o camminare quarantacinque minuti: non ho nemmeno bisogno di pensarci. Milano notturna, vuota e silenziosa; sempre la stessa ma nuova. Era un po’ che volevo incontrarla. Mi addentro in Piazza Duomo come un treno merci lento, la fotocopia alla lontana dell’universitario che fui, che percorreva le stesse strade nelle assolate mattinate di lezione o immerso nell’ansia per esami che avrei passato per il rotto della cuffia. Il cliché della bellezza di Milano di notte è banale ma è di un reale che sa di ipertrofico. Mi domando quante altre volte mi è capitato di attraversare la città da parte a parte all’una e mezza di notte, come quando a 15 anni facevo i chilometri per Busto Arsizio a piedi. Credo non sia mai avvenuto.
Non fa freddo né caldo, questo momento sembra fatto di fondi di caffè sciolti in una pentola d’acqua tiepida. I carabinieri pattugliano, i militari anche. Mi accostano con le loro camionette blindate che vanno a passo d’uomo, dandomi del tutto l’impressione di seguire me, proprio me. A ben vedere, chi altri? Non sembra esserci nessun altro qui, se non me. Nessuno di fronte a Palazzo Reale. Nessuno in Piazza Fontana. Nessuno in Corso Vittorio Emanuele.
Nessuno di visibile, a ben vedere. Ogni cunicolo, ogni retro colonna, ogni ingresso di negozi, è di fatto il giaciglio di qualcuno che ci passerà la notte. Vedere volti è un divieto. Il centro di Milano quando cala il buio è un grande ostello del dolore, o una cosa simile, un grande appartamento condiviso di cartoni, coperte e sacchi a pelo. Tende canadesi, per chi è più fortunato. Gente dal sangue blu, alcuni titolati come ubriachi pazzi, appoggiati debolmente contro i muri e che si trascinano dove un tempo scorrevano canali d’acqua. Paiono tutti nuotare, qualcuno di loro sta sempre affondando. Sembrano a parte di segreti che sarebbe meglio ascoltare.
Costeggio il colonnato di fronte alla basilica di San Carlo che sembro una spia di un romanzo che non ho mai letto. Dietro una colonna sorprendo un uomo ritto in piedi a guardarmi quasi mi aspettasse e mi fa un poco sobbalzare. Ha lo sguardo che mi attraversa ma non mi vede, è stanco ma non mi sembra assonnato, la palpebra calata dall’ultima bottiglia che ha arraffato in giro e quella forma del mento tipica di chi ha pochi denti. Ogni colonnato è un bagno a cielo aperto per lui, sta concludendo la sua giornata prima di tornare al suo sacco a pelo per un sonno che non penso lo ristorerà.
Giù a San Babila scorgo da lontano due individui che vengono verso la mia parte. Ci siamo solo io e loro, in metri e metri. Mi torna in mente quel monologo di Giorgio Gaber di nome La Paura; racconta di una passeggiata notturna per il centro deserto di Milano: parla di me. Le due sagome, non posso negarlo, non mi rendono tranquillo. Essenzialmente perché loro sono due e io sono uno.
Sono vicini. Li vedo meglio. Un ragazzo e una ragazza, giovani, vestiti come me, sembrano dell’est, si fermano ad un angolo con il telefono in mano e mi pare stiano chiamando un taxi.
E infatti, solo persone: come tutte le persone. Strana Milano di notte, le stesse circostanze che generano empatia umana sono anche quelle che potenzialmente generano paura.
Tutto è tensione smorzata, tutto sembra incombere. Il vociare lontano di persone su di giri, i viandanti che ti puntano da lontano, il ricordo di una giovinezza che senza molto dimenarsi si fa sfumato, una pandemia globale, una guerra che si avvicina. Ma è una paura travestita, silenziata, opaca. Non si è mai abbastanza coraggiosi da diventare vigliacchi definitivamente.
Vado oltre. La luna immobile e bianca disegna ombre allungate e drittissime. La città sembra uno spettacolo di cui io sono l’unico spettatore, ma anche l’unico in scena. Sembra una cosa mia, che ad alcuni verrebbe da custodire ed ad altri da colpire. I hit the city, cantava Mark Lanegan. Non lo canta più. Non lo canterà più. I miei passi sembrano camminare proprio sul suono gonfio e rugginoso di quella canzone.
Il buio scende attraverso la terra promessa. Mi soffermo ad un citofono di un palazzo ricco. Di fianco all’ingresso c’è una cappelletta votiva, di quelle in cui ti aspetteresti di vedere una statua della Madonna. Non c’è: ci sono due fiori, con urgente bisogno di acqua fresca, ma della madre di Gesù nemmeno l’ombra.
Le vetrine dei negozi di Armani di Corso Venezia sembrano stanze del potere preparate per qualche meeting internazionale. L’immensa esposizione di Armani Arredamenti è un grande fascio di luce su camere da letto che paiono arredate dalla Regine d’Inghilterra in persona. Esattamente di fronte all’ingresso, un sacco a pelo e un materasso logoro fanno un rifugio di cartoni e bivi sbagliati che stride con una potenza che non può essere casuale.
Chi sta passando la notte in questo giaciglio del fato non poteva scegliere luogo migliore per umiliare la società dell’iper profitto. Un comico intellettuale, un performer che fa della sua stessa vita un atto politico. Il suo sonno è un gesto geniale di satira ad una società maledetta. Sotto a quelle coperte deve esserci un o una erede degli antichi teatranti greci. Uno degli ultimi umani sani rimasti.
All’altezza del palazzo dell’Automobile Club volto a destra e proseguo. Dopo alcuni metri una enorme cancellata immediatamente di fianco a me mi attira come una calamita. La osservo dal basso all’alto, piegando il collo oltre il normale. Al suo interno si intravede nella notte un complesso imponente, liberty, sorretto da putti e teste di aquila. Tutt’attorno è protetto da un vero e proprio bosco, che sembra incatenarlo e soggiogarlo in una antica maledizione. Vedo un ingresso dal quale mi immagino entrare e uscire Porsche, Lamborghini o carrozze con i cavalli della nobiltà milanese. Si sente lo scorrere di un ruscello, uno stagno, forse un mare e suoni di animali, di entità pulsanti. Guardo meglio attraverso le fronde.
Vedo un giardino uscito da un quadro di Seurat e al centro, non molto distante dal confine con la strada, c’è una fontana. Sul bordo dell’acqua, trasalisco, vedo un piccolo leone addormentato. Non è possibile, non può essere. È una statua. La statua di un leoncino di fianco al bordo di una sorgente d’acqua. Eppure qualcosa si muove davvero, tutt’attorno. Allora li vedo bene. Sono tutti insieme nella loro piscina, alcuni camminano mollemente, altri sembrano dormire. Per un attimo mi sembrano cigni, ma sono una intera colonia di fenicotteri, almeno dieci. I colli lunghissimi, le zampe sottilissime. Parlano tra loro, conversano in una lingua simile a quella delle oche, ma più acuta e notturna. Milano mi sembra semplicemente qualcosa costruito tutt’attorno a questi fenicotteri. Sono il fulcro, il senso, l’adesso. Sono i re e le regine del giardino, della notte, del mondo. Gli uomini sono i loro cortigiani e loro si beano di sé stessi, in attesa di nulla di più importante di quello che c’è ora.
Mi tolgo le cuffie, mi guardo attorno e ascolto. Le urla lontane sguaiate di un gruppo di ragazzi rimbombano attraverso le vie vuote. Sono distanti ma si avvicinano, creano un movimento ondulatorio che ha qualcosa di minaccioso. Urla alcoliche, distorte, eccessive, inutili. Ci sono io e c’è Milano semi deserta, alle due di notte. Ci sono dei fenicotteri rosa in un giardino nascosto. C’è una pandemia che dicono stia finendo e una guerra che dicono che stia iniziando. Ci sono delle grida lontane e rimbombanti che si avvicinano. Mi rimetto le cuffie e riprendo a camminare. Devo tornare a casa.