Avete presente le freccette? Quelle con il bersaglio che si attacca al muro, lanciate spesso malamente, ubriachi e girati di spalle, fino alla composizione di uno strano esperimento di arte contemporanea o alla rottura di una lampada? È più o meno questo lo spirito del Ragnatele di oggi.
Come altre volte, cose a caso buttate qui e là. Iniziamo!
Il nuovo disco di Robert Plant e Alison Krauss, Raise The Roof, è uno spettacolo. La loro precedente collaborazione insieme risaliva al 2007 e non era un lavoro che avessi mai approfondito granché. Di questo posso dire che è una manata pazzesca. Prodotto da T Bone Burnett, ha un suono di una vitalità clamorosa. È un tipico album blues/folk sulla falsariga di quello che Plant ha sempre amato, ma con molto meno delle deviazioni orientali dei suoi dischi interamente solisti. Le loro due voci sembrano fatte per stare insieme. Mi hanno colpito soprattutto le chitarre, collose, distorte, piene di terra, piene di fango. E poi le ritmiche, secche, essenziali ma colme di elementi assurdi. In High and Lonesome ci sono dei battiti di mani assassini che potrebbero tenere su il pezzo da soli con la voce. Arrivano e attorno all’ascoltatore si crea una stanza intera.
Sono tutte cover di standard o quasi. L’Africa permea il disco ma nell’accezione americana. Sembra un album concepito da un bluesman degli anni Venti (quelli di cent’anni fa, non oggi) teletrasportato nel paese dei balocchi dell’Hi-Fi.
Dai Led Zeppelin il disco raccoglie solo alcune suggestioni che vengono sformate totalmente, fino a renderle echi lontani.
Per esempio The Price Of Love sembra The Battle of Evermore sotto Xanax, cantata da un fantasma di mille anni fa.
Somebody Was Watching Over Me è praticamente una geniale auto-citazione di When The Levee Breaks, che è un po’ il pezzo degli Zeppelin che Plant ha cercato in qualche modo di ri-manipolare per tutta la vita. Quando il pezzo arriva senti che il disco è finito, perché Robert piazza spesso quelle cose alla fine, per ricordare soprattutto a sé stesso chi è e da dove viene.
Il momento più alto forse è questa Searching For My Love, la rilettura di un pezzo del 1966 di Bobby Moore & The Rhythm Aces che nell’originale aveva tutti gli elementi tipici della soul di stampo Mowtown. Qui diventa un’emanazione dell’alternative rock americano degli ultimi anni. Potrebbe tranquillamente stare in un disco dei The National e riesce a mantenere comunque il suo estro soul. È un pezzo davvero commovente e nonostante questo Plant ci piazza un vero e proprio ruggito a un minuto e mezzo dall’inizio del pezzo. Non sembra stia cantando, sembra stia cavalcando un cavallo affamato dentro i pascoli del Kentucky, cercando chissà quale vecchio amore. Settantatre anni, porca la borraccia (espressione che ho inventato adesso).
Chissà se T Bone Burnett vuol fare un disco con me. Posso offrirgli una fetta di torta e un biglietto della metro.
Ho ascoltato in radio un nuovo pezzo di Sting di nome Rushing Water. Non amo molto le ultime cose dello Sting solista ma questa mi ha colpito tantissimo, perché sembra uscita dai Police di Synchronicity. È grazie a questo ascolto che mi sono reso conto che Sting…ha solo tre anni in meno di Plant. Ciononostante, identifichiamo Plant come icona degli anni Settanta e Sting come icona degli anni Ottanta. A pensarci è ben strano.
Nuovo singolo di Manuel Agnelli. Allora Manuel, ma perché? È tipo la sigla di Lady Oscar se fosse stata scritta da Belzebù. Ecco, sembra una canzone di un film Disney, ma quelle cantate solitamente dal cattivo, mentre nel suo covo pianifica le cattivolezze. Insomma Manu, quand’è che sei diventato il cattivo di un film Disney degli anni Novanta? Il video è anche peggio, mi ha anche un po’ disturbato vi dirò.
Però l’altro pezzo uscito, di nome Pam Pum Pam, è bellissimo e cresce sempre di più ad ogni ascolto. Ha qualcosa di quegli instant classic di Sanremo degli anni Sessanta, ma al tempo stesso tiene intatta una verve luciferina reietto-style. Ma non poteva uscire questa come singolo? Non capisco.
Ho visto finalmente Luca della Pixar. I personaggi non fanno che mangiare pasta, dire “santa mozzarella” e gesticolare in stile napoletano (in Liguria, boh). Ma è davvero questo ciò che siamo? Sì.
Ne hanno già parlato tutti e non ho niente da aggiungere su Get Back: è come assistere alla creazione, ha pure la divisione in giorni. Ho visto solo la prima puntata per ora, il momento che mi è piaciuto di più è quando Ringo guarda Paul suonare il piano e dice con tutto l’affetto del mondo «Lo guarderei suonare il pianoforte per ore, è bravissimo». Ringo, il pal che tutti vorrebbero avere.
Segnalo un assoluto trip ragnatelesco. Come forse ricordate (più probabilmente no) un vecchio numero di newsletter diviso in due parti di nome INDIE-TRO buttava lì due o tre spunti per ragionare senza molto metodo sulla scena indipendente. Era la prima volta che ne scrivevo e avevo citato in particolare Lo Stato Sociale e i Canova, prendendoli a esempio del cambiamento concreto di una certa energia della scena. Il caso vuole che questa settimana sia Mob che Lodo abbiano parlato in due diverse interviste proprio dell’andamento dell’indie in questi anni, entrambi con un occhio piuttosto critico e raggomitolando un po’ i fili di alcune delle cose che avevo abbozzato. Il potere cinetico di questa newsletter.
Mi dispiace molto per la morte di Robbie Shakespeare. Infedels di Dylan, dove lui suona con Sly Dunbar (insieme noti come Sly and Robbie) è uno dei primi dischi che ho amato da bambino. Dunque il suo basso è uno dei primi ad avermi insegnato cosa il basso sia. Questa è una delle mie canzoni preferite di Dylan e il merito è anche di Robbie e di quella parte bellissima tra la ballad e il reggae, con un suono che è tutto frequenza e pochissima corda. Immenso.
Ho trovato un articolo davvero stratosferico, che mi ha insieme galvanizzato e messo il magone, sulla storia di Topolino attraverso il susseguirsi dei suoi direttori. Un pezzo lunghissimo e oserei dire maestoso. Se siete un minimo appassionati di vicende di redazioni, storie sempre bellissime, non ne uscirete più.
Ho trovato su YouTube intere puntate di Atlantide, il programma su LA7 di Andrea Purgatori. Visto che Purgatori è il mio pastore, è un loop dal quale non uscirò più. Voglio vivere in una puntata di Atlantide di Andrea Purgatori.
Avete presente quei tizi provenienti dal metalcore e simili dei primi anni duemila che ben oltre gli anta riscoprono il folk e si buttano sulla chitarra acustica? Loro pensano sia per un ritorno alle origini ma sostanzialmente è perché sono andati a vivere in appartamento e non hanno più accesso alle salette. Mi sta avvenendo una metamorfosi simile, ma con la chitarra classica: il cimitero degli elefanti dei chitarristi rock. No, scherzo. È uno strumento bellissimo e sto studiando qualche roba semplice tipo Bourrée arrangiata da Bach. Vedremo l’evoluzione. Intanto, ecco una bellissima vecchia intervista a Andrés Segovia in cui spiega tutto quello che non pensavate di voler sapere sulla chitarra classica.
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Beh eccoci. Se siete arrivati fino a qui, grazie! State al caldo che là fuori si gela e a volte si gela anche dentro.
Ora stacco tutte le freccette. E poi ricomincio.
Cià!
Brennè