Questo numero è la prima parte di due puntate complementari. Ho scelto di suddividerle in questo modo per due motivi: perché stavo scrivendo troppo (ma non mi andava di tagliare nulla) e per tirarmela con qualcosa che avesse “Part I” e Part II”.
Dunque, voglio iniziare con una confessione.
Mi manca il mondo indie italiano quando era un posto difficile.
Difficile eticamente, intendo.
Ricordate quei tempi in cui era più cool non fare successo piuttosto che farlo? Quando il Do It Yourself era ancora un valore da sbandierare con orgoglio e Giovanni Lindo Ferretti era tipo Che Guevara? In quei giorni riempire posti come il Magnolia non era un inizio: era un arrivo, la porta aperta verso il divino.
Quel mondo è oggi ben raccontato dalla pagina Instagram Nonno Indie.
Io molte di quelle storie le ho sentite solo di seconda mano perché tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila ero troppo piccolo.
Quando ero al liceo MTV Brand:New, ossia quello che avveniva su MTV Italia in piena notte, restituiva qualcosa di quel mondo che appariva segreto e carbonaro. I video dei Verdena o di Bugo dentro a quel linguaggio televisivo alieno e strano, che piaceva agli universitari dell’epoca, erano una finestra su un universo underground per me affascinantissimo.
La coda di quel periodo ho avuto la fortuna di vederla anche io: la prima volta che andai al MiAmi gli headliner erano i Giardini Di Mirò: vi rendete conto? Il palco principale si chiamava ancora “Sandro Pertini”, sigh.
Era l’epoca in cui ce le si diceva di santa ragione. I protagonisti di quella stagione si insultavano spesso e volentieri, il ristrettissimo pubblico era diviso in fazioni sfegatate, che accusavano gli artisti di non essere abbastanza sinceri, di commercializzarsi, di diventare falsi e roba del genere.
Quel periodo mi ricorda una battuta dei Griffin, quando Tom Tucker, il conduttore del TG locale di Quahog, atteggiato a grande giornalista dice: «Volete scusarmi? Devo andare in onda davanti a 600 persone».
Gli Afterhours a Sanremo nel 2009 fecero arrabbiare tanti dei pochi che seguivano la scena e l’anno prima il loro passaggio dalla Mescal alla Universal aveva sortito lo stesso effetto. Ai giorni nostri appare incredibile a pensarci.
È impressionante quanti artisti perlopiù cantautori, oggi considerati quasi dei guru, in quegli anni fossero ancora dei semplici esordienti, perculati da una parte di pubblico alternativo con spericolatezza assoluta. Come Vasco Brondi, che dopo il primo (folgorante) album assunse una seriosità che tanti trovarono immediatamente caricaturale. O come Pierpaolo Capovilla (eroe dei nostri tempi), che flirtò un po’ con la fama dopo il gran lancio commerciale del terzo disco del Teatro Degli Orrori, rafforzando la sua immagine da intellettuale rivoluzionario e finendo da essa un po’ risucchiato, ostentandola addirittura su Vanity Fair e altra stampa mainstream. In un duetto con Marina Rei cantava versi come “Mi sembri Dylan Thomas”, che per il pubblico un po’ più sospettoso suonava come una supercazzola autoreferenziale che doveva essere sbugiardata. Agli stessi Il Teatro Degli Orrori non dispiaceva mostrarsi un po’ spocchiosi di tanto in tanto, come quella volta che risposero alle domande di un’intervista di Sentireascoltare mettendo alla berlina l’intervista stessa (e il povero intervistatore).
O mi torna in mente di quando Brunori, che dopo gli esordi si è consacrato (non devo certo dirvelo io) come uno dei cantautori più importanti della scena, fu tacciato di infinita paraculaggine commerciale all’uscita di Kurt Cobain, poi divenuta un classico.
E quando uscì il primo disco di Maria Antonietta ricordo benissimo il titolo di un thread sullo storico bastardissimo forum del Mucchio Selvaggio: «la nuova artista di Picicca che amerete odiare».
Al primo album dei Cani poi si arrivò addirittura alla violenza verbale. Quel disco segnò certamente un prima e un dopo; nei giorni dell’uscita dei suoi primi singoli era ovvio che stesse succedendo qualcosa, si respirava un’energia particolare. Al primo concerto della band, al MiAmi del 2011, tutti conoscevano i pezzi ma nessuno sapeva ancora che facce avessero. Pazzesco.
È comprensibile che l’aspetto pop e “colorato” di quell’album risultasse insopportabile ai fan della prima ora dell’alternative rock, che iniziavano ad essere più negli anta che negli enta. Sullo stesso forum di cui sopra qualcuno scrisse di questo sconosciuto Niccolò Contessa, dentro un thread che toccava qualcosa come 300 pagine di commenti: “Vorrei vederlo impiccato nel giardino di casa mia”. E questa era la parte di Italia che votava a sinistra.
(Bisogna comunque specificare, spezzando una lancia a favore di chi scriveva bestialità del genere, che i forum NON erano paragonabili agli odierni social. Erano comunità ristrette per certi versi simili più a grandi gruppi privati di Whatsapp che a bachecone pubbliche)
Casualmente proprio mentre scrivevo questo numero Alberto Ferrari è andato ospite a X Factor (in una comparsata non indimenticabile) riaccendendo un pochetto il fantasma (trasparentissimo) di quella vena polemica tra favorevoli e contrari (in cui i favorevoli sono tutti perché “eh tu non lo faresti, mica scemo, si fa conoscere” e i contrari sono uno: io).
Comunque, quelli un decennio fa erano proprio gli anni del cambiamento. La scena si stava levando di dosso una pelliccia politica che durava da qualcosa come 40 anni.
La rivoluzione totale e implacabile sarebbe diventata una palla di fuoco con il successo improvviso di Calcutta del 2015, che ha poi spianato la strada al mappazzone canzonettaro di cui siamo tutti colpevoli (non fraintendete: mi piace molto Calcutta, ma avete capito cosa intendo).
Le vere avvisaglie dell’evoluzione erano sotto i nostri occhi già qualche tempo prima.
Qualcosa l’ho visto da vicino.
Se si esclude tutto ciò che si aggira attorno a Brenneke, la seconda e più importante formazione con cui ho suonato è stato un gruppo che ha cambiato vari nomi, ma noto soprattutto come Il Fieno. Originariamente nacque come backing band di un progetto solista chiamato MU.
Il titolare di questo curioso moniker era Gabri Bosetti, che conobbi credo a fine 2008. Gab era un volto che spuntava occasionalmente nel giro dei Kellylynch e diventammo amici quando ci aiutò a registrare quella Caduta Simbiosi di cui vi parlai. In quei mesi si ritrovò naufrago di band, dopo un’esperienza con un gruppo di nome Ninive. Iniziò ad accumulare pezzi ed era in cerca di un chitarrista per realizzare delle versioni di quei brani che forse sarebbero divenuti un disco. La nostra collaborazione iniziò così, in camera sua qualche sera a settimana, bevendo latte freddo (ma perché?) davanti a un computer e un piccolo mixer digitale. Ero molto affascinato dalla capacità di Gab di tirare fuori suoni curiosi e interessanti da tutto quello che avesse per le mani. Di qualche anno più grande di me, mi parlava di Mark Lanegan, di Beck e della scena indipendente italiana che stavo iniziando a conoscere davvero in quel momento.
Insomma, in poco tempo tirammo fuori un disco senza titolo e lo facemmo mixare in un luogo straordinario sul lago di Comabbio, La Sauna Studio. Erano proprio i mesi durante i quali stavo uscendo dal mio gruppo precedente.
Approfondirò più avanti tante, tantissime cose di quel periodo così importante e formativo, ma ora sono costretto a premere il tasto fast e farvi sorvolare su vari anni pienissimi di eventi.
Con il disco in mano, decidemmo di tirare fuori dal cilindro un gruppo per portarlo in giro dal vivo. Dopo qualche mese di mumble mumble, due persone vennero in nostro soccorso consolidando la formazione: Ale al basso e Fab alla batteria. Dovevamo essere inizialmente una semplice backing band del progetto di Gabri ma ci rinominammo quasi subito MU & The Navahos e ci trasformammo in un gruppo a tutti gli effetti. Io avevo 6 anni in meno di Gab e Ale e addirittura 11 in meno di Fab. Per alcuni anni Gab, Ale e Fab, questi tre incredibili pazzi scavezzacollo, furono i miei fratelli maggiori nel bene e nel male. Ci azzuffavamo e facevamo pace, ridevamo, litigavamo e guidavamo, suonavamo benissimo, malissimo e tantissimo. Vivemmo la grande avventura di essere un gruppo emergente di alternative rock nel 2010.
Gli orizzonti musicali della band partivano da un mondo hard blues, con una curiosa direzione verso la new wave dei Joy Division e quel sound inquieto, sporco. Avevamo tutte le caratteristiche di cui parlavo sopra: ci prendevamo sul serio, autoironia zero, suoni molto drammatici, testi autodistruttivi.
Ci ispiravamo molto anche alla scena alternativa americana degli anni Novanta, con un amore per un certo tipo di pop un po’ lo-fi, beatlesiano e psichedelico. L’aspetto più melodico dei nostri pezzi attirò l’attenzione di un produttore milanese di nome Stefano Clessi.
Vorrei approfondire ogni riga tra le ultime venti per migliaia di battute.
Comunque, Clessi ripulì la gonfiezza rock’n’roll della nostra musica, prelevando cinque tra i nostri pezzi più immediati. Proprio in quelle settimane cambiammo nome in Il Fieno e registrammo con lui, poco prima dell’estate del 2011, un EP.
Quel disco, la prima delle esperienze davvero professionali che io avessi mai fatto in studio, aveva degli spunti molto buoni ma ci snaturò parecchio. C’era un problema piuttosto importante. Dopo averlo finito ci accorgemmo che…non sapevamo suonarlo dal vivo! Perlomeno non come lo avevamo registrato, non con quell’intenzione. Come era potuto avvenire? Il punto è che durante la produzione in studio di quell’EP ci lasciammo sedurre dall’idea che il pop spremuto fuori dal nostro repertorio potesse essere un lasciapassare per fare il salto da semplice gruppo underground a qualcosa di più. Ripulimmo troppo il sound fino a che della nostra alchimia di gruppo rimase ben poco.
Fu l’inizio di un certo tipo di fine, anche nelle relazioni tra di noi.
In brevissimo tempo divenimmo l’incarnazione di quell’alternative rock molto autoriferito che pur senza nessuna legittimazione da parte di un pubblico tenta il colpaccio nazionalpopolare. Negli anni in cui arrivavano Brunori e i Cani sembrava per la prima volta un’idea possibile. C’era una canzone di nome Latito sul nostro EP, un pezzo bellissimo scritto da Fab, che scegliemmo come singolo. Era davvero speciale. Era inquieta, malinconica, cantautorale ma molto cantabile e con un buona dose di elettronica.
Un format di MTV di nome New Generation ci occhieggiò e gareggiammo con altri artisti in un concorso per aggiudicarci il passaggio del video in TV. Non riuscimmo a vincerlo ma tra i dirigenti di MTV qualcuno disse di credere in noi. Insomma, ci autoconvincemmo che eravamo un gruppo in grado di trasformare l’indie underground in pop da classifica. I tempi erano maturi. Il pubblico e gli addetti ai lavori potevano finalmente iniziare ad apprezzare un pop meno convenzionale e più ricercato? Pareva di sì. Ci avremmo provato? Sì. Ci credevamo? Sì. Eravamo forti abbastanza? Nì.
Ci riuscimmo? No.
Come detto i nostri rapporti iniziarono ad intesirsi per vari motivi, tipico delle band con aspettative. Tirare fuori il suono giusto dal vivo era una lotta, ce la mettemmo ugualmente tutta. Le tante tastiere negli arrangiamenti in studio ci rendevano difficile riempire i pezzi con una chitarra sola. A volte suonavo io degli inserti di synth ma mancava sempre qualcosa. Rimanevamo più bravi a fare rock psichedelico che a fare pop. Per governare i pezzi più melodici ci rifugiavamo spesso in una formula che scoprimmo ci apparteneva più di altre: il concerto acustico. I nostri live acustici parevano coinvolgenti e fu spesso con quelli che uscimmo finalmente da Milano, con alcuni live a Roma e a Torino.
Passarono diversi mesi.
Era il febbraio del 2012 e ci trovammo ad aprire una serata in uno luogo bellissimo a Milano, che si chiamava Spazio Concept, in zona Porta Genova. Era un grosso salone ex industriale, multifunzionale a seconda delle manifestazioni artistiche che ospitava e senza palco, tutto ad altezza pubblico. È ancora lì. Gli headliner erano una band di cui si iniziava a parlare in quei mesi, si chiamavano Lo Stato Sociale. Il loro Turisti Della Democrazia era uscito proprio pochi giorni prima ed erano alla prima o seconda data del tour (Qualche anno fa ho incontrato Albi e Bebo ad un festival e rivangammo con piacere quella serata).
Ho un ricordo loro del soundcheck mentre suonavano L’amore Ai Tempi Dell’Ikea. Non era esattamente la mia cup of tea ma li trovavo compatti in quel sound electropunk, mi piaceva come fondevano le drum machine con le chitarre acustiche e anche il loro cantare sgangheratamente all’unisono.
Mangiammo la pizza insieme ma non comunicammo molto perché per noi quella era una sera freddissima, e non solo per gli inusuali gradi sotto zero di quel mese.
Fab ci aveva detto da pochi giorni che mollava la band, quindi sapevamo che era la penultima data in quella formazione. Suonammo acustici, appunto, e fu un bel concerto. Nonostante tutto c’era una bella atmosfera, un pubblico nutrito e attento. Avevamo di che essere soddisfatti una volta finito il set.
Ma quando iniziò Lo Stato Sociale cambiò tutto. Da attento il pubblico divenne scatenato, da nutrito divenne tantissimo, tutto pigiato in quei pochi metri. Da bella l’atmosfera divenne calda.
Nessuno li aveva mai sentiti nominare prima dei quei giorni, ma avevano già un sacco di fan, sbucati da chissà dove, e soprattutto un linguaggio.
Linguaggio che prendeva la parte più superficiale de I Cani e la dilatava mescolandola con del cabaret in stile festa universitaria.
Qualche nostro amico li commentò così: «Sono proprio dei bolognesi», che non capii cosa volesse dire ma mi fece molto ridere.
Quella sera divennero evidenti diverse cose.
Da una parte noi, Il Fieno, arroccati nella nostra seriosità alla Ian Curtis con concessioni pop, dall’altra loro, Lo Stato Sociale, con una musica da festa per cantare e per ballare. Concessioni intellettuali? Nessuna. Pubblico conquistato? Tutto.
La reazione entusiasta della gente era un mini versione di un’esplosione che sarebbe arrivata a breve.
Ovviamente tutte queste riflessioni posso farle fino in fondo col senno di poi. Sono certo che per quanto trovassimo curioso il piccolo boom di quel concerto non ci riflettemmo più di tanto.
Immaginare quella sera che Lo Stato Sociale avrebbero in pochi anni conquistato Sanremo, riempito il Primo Maggio e Assago e diventati personaggi televisivi conosciuti in tutta Italia era ovviamente assurdo e surreale.
Stavano per succedere cose ancora più surreali. Di cui vi racconto nel prossimo numero.
Varie settimanali:
- Bellissimo il nuovo album dei Travis, ve lo consiglio, ascoltare questa canzone pazzesca per credere.
- La volta scorsa vi ho inviato la newsletter con un errore di ortografia da prima elementare, l’apostrofo su “un” al maschile. Sapete chi mi ha scritto per comunicarmelo, circa 10 minuti dopo l’invio? Mia madre, professione professoressa di lettere. Vi lascio immaginare la ferita nel mio orgoglio.
- È stata ufficializzata una cosa molto triste che sapevo da diverso tempo: La Sauna, storico studio citato in questo numero, chiude. La storia di quel luogo e di Andrea Cajelli, che ci ha lasciati maledettamente qualche anno fa, aleggia praticamente in tutto quello che ho scritto in queste battute. Mi piacerebbe raccontarvi qualcosa a riguardo un domani.
- L’altro giorno Conte, mentre parlava alla nazione, ha inventato non volendo un neologismo straordinario: at-tensione.
E con questo vi saluto. Come sempre grazie.
A presto!
Brennekedo