Viviamo strani giorni
Una mattina nel gennaio 2017 mi trovavo in macchina. Vagavo in una zona industriale dalle parti di Origgio, Saronno, Uboldo, Caronno Pertusella, Misinto. Sono piccoli paesini incredibili e appena appena reali, disseminati sulla striscia di chilometri che unisce Milano nord a Varese. Da quelle parti il comasco inizia a confondersi con la Brianza, e ne esce una roba che Manchester o Asbury Park negli anni Settanta a confronto erano città d’arte. Centri abitativi talmente assurdi che dovrebbe uscirne un regista geniale e pazzo o un visionario cantautore almeno ogni 5 anni: ovvio che non succede.
Ho in mente strade polverose e lunghi metri di cancelli marroni, anche se è evidente che sto introiettando nel ricordo le visioni di altri paesaggi industriali periferici ancora più decadenti magari visti in qualche film e perlomeno meritevoli di memoria fotografica. Da quelle parti le zone brutte non lo sono manco abbastanza da essere ricordate.
In quella stessa zona industriale, sono sicuro fosse attorno a quei giorni, in mezzo al nulla, nel cortile di una piccola azienda metalmeccanica, avevo visto una mattina un tizio fare Tai Chi. Mentre giravo in auto a stanare clienti per l’azienda per cui lavoravo all’epoca, quelle piccole visioni surreali le chiamavo “momenti Sorrentino” e me le segnavo nel telefono. Avevo notato che beccavo almeno un momento Sorrentino a settimana.
Quel giorno di inverno faceva stranamente caldo ed ero in un insieme di umori diversi. La mia vita era cambiata un pochetto nell’ultimo anno, avevo saputo che sarei stato spostato di filiale e città lavorativa entro pochi giorni e stavo meditando per la prima volta seriamente di mollare tutto e dedicarmi solo alla musica.
Era insopportabile il lato commerciale del mio lavoro, tuttavia mi consentiva di andare in giro in auto e ascoltare la radio.
Quella mattina, il sole in faccia, la luce opaca di gennaio, la mia Yaris che mi faceva compagnia, la mia valigetta di fianco al sedile, da qualche stazione fecero capolino dei suoni lontani, ostinati e fluttuanti. Non li riconobbi, ma mi fecero subito pensare ai suoni Yamaha di Brian Eno e mi catturarono perché avevano il ritmo di un viaggio in auto per le strade del deserto. Il successivo attacco di basso batteria, con quegli ulteriori incastri di synth che sembravano timide trombe, mi si ficcò in testa. Era Summer On A Solitary Beach di Battiato.
“Passammo l’estate su una spiaggia solitaria”. Ero l’unico seduto in auto e la strada era completamente vuota. Dunque Franco stava parlando con me: proprio con me.
Ora, conoscevo già piuttosto bene il grosso di ciò che è da conoscere di Battiato. La famosa trilogia pop di fine anni Settanta, i live degli anni Novanta e Duemila, perle sparse e qualcosa dai Fleurs. Tuttavia quel pezzo, tra tanti, non mi era mai entrato, non mi aveva mai parlato. Chissà perché.
In quella mattina di gennaio, invece, mi rapì. Aveva la mia completa attenzione. Ero in una zona industriale brianzola dio sa dove in una giornata di inverno. Ma a “Mare mare mare voglio annegare” ero su una spiaggia sperduta ed era estate. Non so se fu qualcosa di simile ad un’epifania, fu più semplicemente un momento di profonda e commossa emozione. Parlava a me e di me per quello che io ero in quel momento e per quello che era esattamente quel momento per me.
Fu una splendida lezione sull’arte. Ho percepito che spesso l’arte si rivela quando si confronta con un istante di vita reale. Quel giorno una canzone sulla malinconia del mare, sul richiamo di un altrove nascosto tra il vento di salsedine, svelò sé stessa tra i vicoli attorno a piccole aziende metalmeccaniche della pianura padana. Una volta arrivata, non si è mai più tirata indietro. Divenne la mia canzone preferita di Battiato e lo è ancora oggi.
Tutti hanno già scritto tutto in questi giorni, e alcune riflessioni che ho letto sono davvero illuminanti e speciali. Battiato è sempre stato dato un po’ per scontato ma suppongo che sia avvenuto solo perché è stato il detonatore di una serie di automatismi emotivi che la musica leggera ha fatto propri negli ultimi decenni. Semplicemente, è stato il capofila di qualcosa che sembra sempre stato lì. È difficile immaginarci senza.
Fingendo di assumere un punto di vista un po’ distaccato, per quanto possibile, diventa incredibile quanto fosse un artista assolutamente unico, speciale, pazzesco nell’intero panorama mondiale. Quello che mi ha impressionato in questi giorni è la commemorazione condivisa e sincera da parte di persone che rappresentano espressioni di idee, generazioni, background, culture e stili differenti. Tutti si sono fatti raggiungere da Battiato, dalla sua arte sempre a cavallo tra alto e basso con quella voce a fare da sontuosa cucitura.
O meglio: lui ha raggiunto tutti.
Mi sono venuti in mente pochissimi nomi in grado di fare qualcosa di simile allo stesso modo. In Italia forse solo De Andrè, anche se il genovese non si è mai realmente misurato con il basso. Internazionalmente direi solo i Beatles, Bowie e in minor misura Peter Gabriel (non a caso il chitarrista David Rhodes ha suonato con entrambi).
Ma c’è dell’altro.
Una volta tempo fa ho letto una sua intervista. L’intervistatrice lo adulava definendo le sue canzoni storiche, quelle del successo commerciale, dei capolavori. Lui rispose qualcosa del genere: «In realtà erano delle cretinate. Che miravano all’alto, ma sempre cretinate erano».
Io ho sempre interpretato La Voce del Padrone semplicemente come un grande esperimento parodistico. Battiato stesso lo ha detto tante volte: veniva dalla musica sperimentale, poi ha freddamente deciso di diventare famoso e…l’ha fatto.
L’ha fatto prendendo la forma canzone e inventando un ibrido con un linguaggio lirico tendente ad un intellettualismo spesso fine a sé stesso. Ha intuìto un’idea di pop talmente assurda e fuori moda da precedere di fatto quello che il pop sarebbe potuto diventare.
Poco meno di un decennio dopo essere diventato il più grande fenomeno di cantautorato pop della storia della musica italiana, si stufa di nuovo (così come si era stufato della musica sperimentale alla fine degli anni Settanta), ricomincia a punzecchiare il pubblico sfidandolo a tenergli il passo, e lo fa soprattutto utilizzando la musica classica. È da quegli anni che a mio avviso inizia davvero a misurarsi con il cantautorato poetico. E Ti Vengo a Cercare, Povera Patria, Le Sacre Sinfonie del Tempo, Lode all’Inviolato, tutto un climax di capolavori per arrivare a La Cura. Ecco che la gravità permanente trova il suo centro.
Nell’eredità artistica di Battiato a mio avviso c’è un problema: i più l’hanno fraintesa. E mi sentirei di dire che lui lo sapesse.
Negli anni Ottanta Battiato si è divertito a tratteggiare un pop “edonista” di alta qualità. Ma appunto, era una finzione, un gioco alle illusioni, la narrazione delle superfici. Una riflessione sul materialismo. Il classico caso di saggio che indica la luna ma tutti gli guardano il dito.
Nei decenni successivi, la sua musica è entrata nell’immaginario collettivo di noialtri musicisti piccolini soprattutto con i suoni. Quei suoni terribili di plastica synth anni Ottanta che lui, con il suo immaginario, con la sua visione, è riuscito a trasformare in elementi misteriosi, esotici, interessanti.
In pochi anni ha nobilitato il pop agli occhi degli alternativi. Ha costruito un’idea di new wave (figlia del prog e non del punk) che successivamente non ha mai abbandonato la canzone italiana. Anzi, per certi versi l’ha addirittura imprigionata.
Tutti quelli che cercano di imitare Battiato nel suo essere facile con intelligenza e leggerezza, falliscono. Istantaneamente, diventano gravi, pesanti. Non se ne rendono conto, ma loro non cazzeggiano abbastanza. Non sono abbastanza disincantati. La prendono sul serio, questa canzone pop. La prendono emotivamente.
Questo perché secondo me i più pensano che Battiato vada tributato ricalcando la sua formula di fusione tra cultura alta e cultura bassa. Ma il punto è che questo lo ha già fatto lui.
Secondo me la vera eredità ispiratrice che ci ha invece lasciato è la stessa che si trova nell’opera di Bob Dylan: l’abitudine alla delusione delle aspettative. Che non fa assolutamente rima con la mortificazione commerciale. Mollare la musica sperimentale e scegliere di rendersi deliberatamente una sfuggente macchina da pop è una delusione dell’aspettativa. Così come lo è, successivamente, farsi gradualmente uno strumento di poesia. Non è un caso che, chiusa la fase pop (quando Battiato inizia, come ho letto in una bella definizione in questi giorni, a farsi più “francese”), al suo fianco arrivi Sgalambro. È un altro tempo e un altro spazio: c’è un altro scopo. È lì che delude le aspettative ancora una volta: basta edonismo sornione, da ora parliamo dello spirito. Con distacco e serenità.
Negli anni io sono ovviamente uno di quelli che si è fatto con gioia ingannare dai suoi piccoli tranelli. Ci sono frammenti, soprattutto musicali, di Battiato in tanti miei pezzi e ne vado molto fiero. Aforismi su tutte, ma anche 1997. E c’è un mio pezzo di qualche anno fa, mai uscito, di nome L’insufficienza Di Ogni Schema, che è praticamente un lungo omaggio (serioso, emotivo, grave: tutto sbagliato) dall’inizio alla fine.
Un paio di volte, nel 2015, ho suonato dal vivo Up Patriots To Arms e per i miei concerti nella seconda parte del 2019 avrei voluto arrangiare con la band una nostra Summer On A Solitary Beach. Non l’ho fatto, e farlo adesso non avrebbe più lo stesso significato. Ma chissà.
Viviamo, più che mai, strani giorni. E mi colpisce che questo mago dei significati e significanti sia scomparso proprio nel momento in cui la società occidentale ha smarrito le strategie per interpretare il pensiero. Non ne sa più cogliere peso, utilità, senso. I significati non esistono più, sono persi, svuotati, inglobati da una mercificazione senza fine che si è mangiata perfino le parole, l’ultimo baluardo di resistenza rimasto.
In questo senso l’opera di Battiato, come quella di tutta la musica popolare novecentesca, era già un ricordo lontano da tempo, svuotato, impacchettato, archiviato, musealizzato, ad uso e soprattutto consumo di un mondo che non sa più pensare.
Mi riservo di credere che però lui ne fosse perfettamente consapevole. Che l’avesse capito da molto tempo che cosa stava succedendo.
Lo penso leggendo l’ultima sua risposta in un’intervista che Morgan gli aveva fatto diversi anni fa. Il monzese gli chiedeva, «Che ruolo ha il rock oggi? Ha ancora un senso?». Morgan faceva volutamente uso della parola rock, apparentemente lontana dal mondo battiatesco e in realtà identificativa di un preciso modo di concepire la cultura, l’arte e la contemporaneità. Sono certo che Battiato ne capì l’interpretazione, perché la sua risposta fu: «Ha il senso che ha l’illusione».