C’è una cosa che mi piace dell’invecchiare, la gente che si incontra nel corso della normali situazioni di una vita comune smette a poco a poco di essere insopportabilmente paternalistica.
Eh sai poi quando ci arrivi. Ma sei giovane, io ho qualche anno in più. Ti spiego io. Meglio che ti dai una mossa. Ci farai il callo. Abituatici. Ragazzo, ascolta me. Tra qualche anno ci arrivi. Eh ce ne hai ancora da imparare. Faccio il tifo per te. Goditeli adesso che poi. Vedrai vedrai.
Ti do un consiglio.
O il peggiore: posso darti un consiglio?
Fino a quando hai 25, massimo 26 anni, la schiera di personaggi che incontri nella categoria di quelli che “fanno le cose” (cosa? boh) e che ad un certo punto vorrebbero darti del cretino per disparati motivi, non riescono mai a farlo con la reale necessaria dose di convinzione. Si bloccano, hanno dei ripensamenti, dei dubbi etici, perché sei troppo giovane, perché qualcosa nel loro cuore suggerisce loro che non te lo meriti ancora. Un insulto, un insulto vero, un vero motivo di biasimo, te lo devi proprio meritare. Te lo devi sudare.
La loro disapprovazione non riesce così a concretizzarsi realmente e si cristallizza in una irrinunciabile opportunità moralizzatrice. È lì, in quel momento, che si accorgono che, porco cane, quella roba li fa stare anche molto meglio che insultarti e basta. Non hanno bisogno di insultarti: possono insegnarti. Quale migliore occasione per lustrare un ego dimenticato, addormentato o insoddisfatto. Un giovane su cui finalmente far valere anni di lezioni di vita.
Rinunciano a valutarti, perché scoprono che possono semplicemente svalutarti. Il gioco preferito dell’essere umano, il potere. E allora sotto, via: non è che sei un cretino, è che sei giovane. È che te ne manca per arrivare a dove sono io.
Scattano addirittura i sorrisi, le pacche sulle spalle, le battute complici, le strette di mano. Massì, hai solo 20 anni: ti perdono. Non sei una minaccia. E tu intanto vorresti solo dire: ma perché fai così? Non ti avevo fatto arrabbiare? Odiami! Io me lo merito il tuo odio.
Tra i 26 e i 30 cambia qualcosa. Sono anni di vago imbarazzo, in cui le persone non sanno più se giudicarti giovane o adulto, se considerarti un rivale o un allievo. Nel dubbio il grosso di loro si mantiene ancora cauto, ma si registrano enormi differenze di reazioni basate sulla forma del tuo viso, la tua altezza e prestanza fisica, il tono della tua voce, l’intensità della tua stretta di mano, la quantità dei tuoi orecchini, la tipologia dei tuoi vestiti.
E poi ad un certo punto, in quell’età un po’ nel mezzo del cammin di nostra vita, finalmente qualcuno inizia a darti del coglione senza quel sottotesto di implicita lezione morale, di instradamento alla vita o di “ascolta me”. È l’attesa fine di quell’era di scolarizzazione forzata e obbligatoria. Ora finalmente quelli rivolti a te sono insulti completi, totalizzanti, sicuri, alla pari. Privi di ambiguità. Privi di rimorso. Ma pieni di spontaneità, di verità, di normalizzazione.
L’epoca del paternalismo, della svalutazione, degli eterni studenti, si chiude e inizia l’era degli scontri, della rivalità, del valore, dell’accettazione.
Da quel momento dell’esistenza in poi, quando per qualcuno sei un coglione, lo sei completamente e per sempre. Eternamente. E ne sei fiero, è una medaglia: non stai più attendendo di essere riconosciuto come membro operativo della società. Finalmente ne sei parte.
Ma ti accorgi che contestualmente avviene un fenomeno che non avevi considerato. Ora che le persone finalmente ti possono giudicare, attaccare, sfidarti, non lo fanno tanto quanto immaginavi. Erano più le volte, pensi, che ti dicevano “fidati, sei ancora giovane” delle volte che ti dicono “sei proprio un imbecille”. Eppure tu ti comporti nello stesso identico modo di un tempo, fai le stesse cose. Eri pronto alla lotta coi pari. Ma nessuno vuole più lottare.
Perché l’insulto è quella cosa che quando la si vorrebbe dire ad un giovane, si trasforma in una lezione. E che quando la si vorrebbe dire ad un adulto, non c’è più gusto.
Ora nessuno si fa problemi nel pensare che sei un coglione. Ma piano piano te lo dicono sempre meno, se lo sei o non lo sei. E se lo pensano davvero, in fondo nemmeno ci fanno più caso. Ne hanno smarrito il senso.
Tanto oramai non ti possono insegnare più nulla.