La scorsa domenica ero a casa da solo. Durante il vagabondare da social mi è apparso un link per la diretta del concerto in ricordo di Taylor Hawkins.
L’ho aperto più per automatismo che per curiosità. Sapevo ben poco dell’evento ed ero convinto che avrei esclusivamente dato una rapida occhiata per poi passare ad altro.
I Foo Fighters non hanno mai rappresentato molto per me. Non ne ho mai compreso l’essenza né ne ho mai amato granché le coordinate stilistiche; non ho mai sentito loro canzoni o dischi che mi trasmettessero qualcosa di profondo. Mi piace Dave Grohl in realtà e tra i suoi vari progetti ce n’è almeno uno (i Them Crooked Vultures) che ho ascoltato e amato molto. Ma i Fighters, nisba. Conosco i loro classici più per una questione generazionale.
Quella patina da School Of Rock di base non fa per me, quella roba da nerd di 17 anni che fanno il segno delle corna con le dita e la lingua fuori. E ad ogni modo i Foo Fighers sono comunque degli strani esponenti di quello stile, perché in realtà fanno una versione piuttosto elaborata del pop punk più che del classic rock. Ad essere coinvolgente nella band è il fatto che prima ancora che essere musicisti sono dei fan.
Anche io, ad ogni modo, ero rimasto colpito dalla scomparsa di Hawkins.
Il concerto è durato in tutto sei ore, quando mi sono collegato era iniziato forse da circa una: non sono più riuscito a spegnerlo.
L’ho visto tutto, fino alla fine. Perché in breve tempo mi è stato chiaro che non era solo un grande, commovente, struggente funerale per Hawkins. Ma era un grande, commovente, struggente funerale per la musica rock.
A metà tra quello e una terapia di gruppo per elaborarne la fine.
Non c’erano rappresentanti di tutte le sfaccettature del rock, ma ce n’erano abbastanza per creare una linea di congiunzione tra i vari decenni, che percorresse una strada coerente e vertiginosa nel suo vagare nello spazio, nel tempo e nelle dimensioni.
Sul palco si sono alternati decine di musicisti vivi…e decine di musicisti morti. Quando ho acceso, la figlia di Grohl cantava Jeff Buckley e già era un bel tuffo al cuore. Ogni volta che Dave saliva sul palco, il volto sempre plumbeo e sempre con gli occhi gonfi e stanchi, di fianco a lui c’era Cobain. Quando è arrivata l’attesa reunion dei Them Crooked Vultures era impossibile non vedere il fantasma di John Bonham dietro ad un John Paul Jones particolarmente anziano. E mi è anche venuto automatico, sentendo Josh Homme cantare, pensare all’ombra della strage del Bataclan al concerto degli Eagles of Death Metal. La folla poi: guardando lo stadio di Wembley pieno era impossibile non farsi prendere dallo straniamento dopo i due anni di Covid. Mentre i Supergrass suonavano Alright, questa sembrava provenire da un pianeta lontanissimo. E meno male che mi sono perso il tributo a David Bowie con Nile Rodgers che suonava Modern Love: la stessa che Bowie suonò al Live Aid del 1985 proprio nello stesso stadio. Dai ma che colpo basso.
Vogliamo continuare? Van Halen, Marc Bolan, Bon Scott, Amy Winehouse, Cliff Burton: tutti fantasmi che invadevano il palco mentre gente come Brian Johnson, Lars Ulrich o Stewart Copeland faceva il proprio onesto e dedito lavoro. Ognuno era lì per omaggiare Hawkins ma in fondo, a me pareva, ognuno stava omaggiando il proprio passato. Ognuno stava omaggiando sé stesso e i propri amici scomparsi. Con onore, con gratitudine, con accettazione.
Dopo ore ed ore trascorse in questo modo, quando sono saliti sul palco i Queen lo spirito di Freddie Mercury era talmente gigantesco, talmente ingombrante che anche solo vedendo il tutto da casa ci si sentiva quasi intimoriti, quasi in imbarazzo. Lo stesso stadio del Live Aid e del tributo del 1992. La stessa canzone, Somebody To Love, che fu cantata in quell’occasione da George Michael. E Under Pressure che diventava un tributo congiunto a Hawkins (che la cantava spesso), Mercury e di nuovo Bowie. Fantasmi, fantasmi dappertutto.
Perfino May ha dovuto sottolineare parte di questi parallelismi prima di Love of My Life. Qualcuno doveva dire qualcosa.
Non era possibile omaggiare Taylor Hawkins in un modo che non fosse quantomeno toccante, ma era difficile immaginarsi un simile livello di struggente sopraffazione. Forse, mi viene da pensare, l’effetto complessivo non era stato previsto nemmeno dagli stessi partecipanti.
Nel momento in cui i Foo Fighers hanno preso posto sul palco la tensione era devastante. Dave ha attaccato l’intro di Times Like These e dallo stadio si è levato un coro d’altri tempi, una roba arcaica. La sua voce ha iniziato a tremare, dal secondo ritornello ha iniziato a singhiozzare disperato interrompendosi e riprendendo. Ogni volta il pubblico si interrompeva e riprendeva con lui. Con immensa fatica è giunto fino alla fine dell’intro e la band è entrata come se suonasse durante l’apocalisse. Non avevo mai visto né sentito niente di simile. La musica, gli stadi, le valvole, il novecento, l’isteria, i morti, le guerre, la pandemia: tutto era una cosa sola, che navigava nel tempo e nello spazio. Tutto aveva il suono di una grande esplosione.
Sembrava l’ultimo maestoso canto del cigno di un’era. Era il suono dei sopravvissuti.
Non poteva proprio mancare Paul McCartney nel finale a portarsi appresso anche lui tutti i suoi spiriti, forse i più maestosi di tutti. Chi avrebbe mai detto che l’omaggio ad un batterista tanto trasversale, tra gli ultimi grandi batteristi rock, potesse trasformarsi in una cerimonia così imprescindibile, così doverosa e totalizzante?
Non è un caso che, se si escludono quelli “di famiglia” (come il figlio di Hawkins o la figlia di Grohl) nessunissimo rappresentante delle nuove generazioni era presente, forse nemmeno invitato. Non solo c’erano cose che loro non avrebbero potuto evocare o nemmeno maneggiare. Ma sul palco, mi pareva, c’erano re e regine che non volevano né potevano consegnare le loro corone a nessun nuovo erede. Le loro erano corone da seppellire o da bruciare per sempre in pubblica piazza.
A nemmeno una settimana dal concerto è morta la Regina Elisabetta, una presenza costante nell’immaginario del rock inglese, ed è impossibile non vederci qualche tipo di connessione. Che sta succedendo al mondo a cui ci eravamo abituati?
Se ho ben capito a fine mese faranno un altro evento gemello per Hawkins a Los Angeles, immagino per omaggiarne il lato musicale e affettivo americano. Non so come sarà possibile scrivere un secondo capitolo di questa cosa gigantesca.
La mia impressione è che, comunque vadano le cose, il live di Wembley sarà ricordato come il funerale di un certo tipo di rock. Personalmente ne sono certo. Tutto ciò che verrà da ora in poi sarà un’altra cosa. Un’altra cosa rispetto a quella che è nata con That's All Right, Mama di Elvis Presley ed è finita con le lacrime di Dave Grohl su Times Like These in uno stadio di Wembley pieno di fantasmi.