La frequenza dei numeri di Ragnatele è diventata la stessa dei miei esami al tempo dell’università: uno ogni tanto. Mi sono domandato, in queste settimane di assenza, perché non riuscissi a scrivere più questa newsletter. Senz’altro c’entravano alcune incombenze lavorative divenute più fitte, certamente il tempo settimanale assottigliato e diverse questioni personali di immensa importanza.
Ma sentivo che doveva esserci dell’altro. Negli scorsi mesi avevo scritto anche di notte, solo per il gusto di farlo. O in brevi momenti di quiete tra scadenze rotolanti.
Allora ho analizzato alcune motivazioni. Forse semplicemente non avevo nulla da dire, ho pensato. Ma chi non ha nulla da dire suvvia? È impossibile non avere nulla di nulla da dire, se non dici qualcosa è perché non vuoi farlo. Il che va benissimo, intendiamoci: magari non si avesse più voglia di dire niente! Tuttavia non era propriamente il mio caso. Volevo farlo, è che non riuscivo. Volevo volerlo fare. Volevo volerlo voler fare. Volevo volerlo volere voler fare. Volev..
Ho smesso quasi subito di tentare di riflettere in modo strutturato e logico sui perché e i percome, non mi sono forzato a scrivere qualcosa se non sentivo la miccia che si accendeva. Intanto le settimane passavano, e tutt’altro che noiose.
Impossibilitato a scrivere, da chissà quali cortine interiori, ho pensato di impegnarmi a leggere.
E ho letto un libro incredibile, L’Amore Fatale di Ian McEwan. Mi è piaciuto non solo perché è un bellissimo libro scritto con un potere di coinvolgimento raro, ma soprattutto perché era un sacco di tempo (forse anni) che non riuscivo a leggere un romanzo. Non so bene perché ma i romanzi mi spaventano, soprattutto perché mi urta molto dovermi interrompere nella loro fruizione. Chi d’altronde ha a disposizione giorni interi da dedicare ininterrottamente alla lettura di un libro senza staccare gli occhi dalle pagine? Non ricordo chi (Guy De Maupassant? Philip Roth? Giulia De Lellis?) diceva che i racconti sono la forma d’arte letteraria più completa perché ne puoi godere in un unico momento senza interruzioni. Sono piuttosto d’accordo, soprattutto dal momento che le mie sinapsi sono gravemente danneggiate e ho degli enormi deficit di attenzione in quanto io di classe 1989 e cresciuto con programmi spazzatura prima e popup del web poi. Fortunatamente, sono riuscito ad applicare quasi totalmente il principio dell’assorbimento totale nella lettura di questo libro, ho letto il primo capitolo una sera e tutto il resto la domenica successiva.
Mi ha colpito molto un aspetto della trama.
PICCOLO SPOILER.
(In realtà non è proprio uno spoiler perché è scritto nella quarta di copertina sul libro stesso, ma io metto le mani avanti perché non voglio finire nello shitstorm su tutti i giornali BRENNEKE SPOILERA LIBRO DI 24 ANNI FA, non sono mica Fabio Fazio)
Dunque, trattasi di un libro del ’97 e l’argomento centrale, quello che funge da fulcro narrativo per tutto il tempo, è lo stalking. Ovviamente non è chiamato così, perché la parola non esisteva ancora, o perlomeno non era di uso comune. La storia si basa dunque sul presupposto che per le vittime fosse difficoltoso raccontare agli altri il disagio dello stalking perché non ancora del tutto riconosciuto come un problema.
Oggi non è più così. Una storia come quella non potrebbe essere scritta proprio per il fatto che lo stalking è identificato come qualcosa di riconoscibile e definibile agli occhi di chiunque. Si risolverebbe con una tensione del tutto stemperata. L’evoluzione dell’impianto giuridico occidentale e del sentire comune rende dunque oggi totalmente anacronistica una storia come quella, che comunque risale a poco più di 20 anni fa, non 60. Un po’ come quando pensi che Romeo e Giulietta oggi si risolverebbe con un whatsapp: “Oh va che non muoio davvero, bevo una pozione e faccio finta, ci vediamo dopo cià” (secondo spoiler, oggi marco male).
E insomma, che cosa rimane della narrativa dopo che viene progressivamente resa obsoleta dall’evoluzione umana? Boh.
FINE PICCOLO SPOILER
Mentre leggevo L’Amore Fatale pensavo che sarebbe stato una eccezionale sceneggiatura di un film degli anni Novanta. Potevo quasi sentire i personaggi doppiati da Roberto Pedicini e Chiara Colizzi. Manco a farlo apposta, ho poi scoperto che Hollywood non si era certo lasciata sfuggire l’occasione di farci un bello psico thriller con Daniel Craig protagonista, attore che chiaramente non c’entra una sega con il personaggio del libro. Ma tant’è, non ho molta voglia di vederlo.
Leggere non mi ha intuitivamente fatto tornare voglia di scrivere e il pensiero veniva ciclicamente ad infastidirmi.
Ci riflettevo ancora un giovedì sera, armeggiando su alcune schede audio in una stanza interrata dalle parti di via Padova. Ormai erano un po’ di settimane che le mie sere del giovedì le trascorrevo lì sotto, i bocchettoni dell’aria e l’odore di sigaretta, la luce artificiale e il busto di Ludovico Van che mi fissa da sopra l’enorme schermo del computer. In mezzo alla stanza, proprio sotto i pannelli fonoassorbenti, microfoni bellissimi ad alternarsi senza piani; canto come mi pare, faccio quello che mi suggerisce il momento. A volte mi accompagno con la chitarra classica che di solito trovo abbandonata sul divanetto, a volte suono la telecaster elettrica che ha costruito Zava, ma staccata, solo per il gusto di tenere appesa. A volte mi tengo i testi con la mano sinistra o vado a memoria e a volte devo fermarmi, per aggiustare alcune parole, o far esperimenti di sillabe.
Quel giovedì sera, guardandomi attorno, mi è divenuto più chiaro perché ultimamente scrivevo di meno e perché avevo abbandonato la newsletter. Non era una questione di tempo, e non era nemmeno che non avevo nulla da dire. È che in queste settimane avevo ripreso a dire cose da un’altra parte, in un altro modo. Ebbene: sto lavorando a roba nuova. Ho passato il 2020 a domandarmi “Ma mi si nota di più se faccio un disco e lo pubblico in disparte o se non lo faccio per niente? Lo faccio e mi metto, così, vicino a un palco di profilo in controluce. Voi mi fate: Edoardo, vieni a suonare con noi dai. E io: andate andate, vi raggiungo dopo. Lo faccio, ci vediamo alla pubblicazione. No, non mi va non lo faccio”. Così più o meno per un anno. Dopo ho capito (anzi, ho deciso) che non aveva poi molto senso interrogarsi sulla questione senza sapere effettivamente che disco stavo teorizzando. E quindi eccomi capitombolato allo studio che Zava ha messo su con i suoi soci. Un posto assurdo, che sa di punk e di anni Novanta, un piccolo tempio zen ’n’ roll. Quel luogo è solo una delle molteplici e straordinarie emanazioni di Totally Imported, a me connessa tramite la succursale Vetro Dischi.
Presto mi prenderò del tempo per raccontarvi come, alcuni anni fa, ho incrociato la mia strada a quella di due personaggi a tutti noti come Ita e Zava, che pronunciato in un unico suono potrebbe sembrare il nome di un antico filosofo giapponese, il venerabile ITA EZAVA. Del medesimo livello di saggezza e autorevolezza dei due soggetti in questione.
Ho iniziato ad accumulare alcune canzoni già a fine del 2019. Si sono aggregate quasi richiamate l’una all’altra. Stanno ancora dialogando tra loro, alcune sono state estratte in mezzo a polverose versioni di anni fa, altre sono nuove di zecca e altre ancora sono fusioni tra suggestioni da me scritte quando ero una persona diversa da ora e la persona che sono ora. In questo momento sto gestendo un dibattito nella mia testa tra canzoni che non ricordo di aver scritto, canzoni che non ho scelto di aver scritto, canzoni che ho cercato e canzoni che non ho ancora scritto.
Non so dove mi stanno portando queste session. Ma l’altro giorno è passato in studio Dani, che in passato potreste avere visto sul palco con me nella fiera veste di bassista e multistrumentista, e gli ho fatto ascoltare alcune cose su cui stavo lavorando. Era la prima volta che facevo ascoltare a qualcuno il contenuto di queste mie serate solitarie in studio. Più di una volta mentre facevo ascoltare a Dani le canzoni che sto accatastando come vecchi vestiti su una sedia, mi sono ritrovato a pensare “Ehi, qui c’è qualcosa”. Abbiamo ragionato su diverse idee per un po’, abbiamo registrato qualcosa e poi siamo finiti a parlare dell’11 settembre.
Insomma, dove mi trovo adesso è un luogo in cui non c’è spazio per nessun tipo di fretta e nessun tipo di giudizio. Il luogo adatto per costruire.
Cià,
Brennè