Il 21 ottobre esce una mia nuova canzone, dal titolo Buona Miseria.
La Vita Immaginata era uscita gli ultimissimi giorni di luglio.
Era una canzone spossata, controluce. Nello scriverla e registrarla avevo in testa un suono come di campi bruciati dal sole estivo.
Ora è ottobre. Inizia a fare freddo e l’autunno arriva un po’ più ubriaco del solito.
Così è venuto il momento di pubblicare il seguito di quel racconto. Quando quello che era sembrato rassegnazione diventa lotta. Ho deciso di chiamarla Buona Miseria per tanti motivi. Il titolo sembra un po’ inquietante ma a ben vedere la canzone non lo è per niente. Anzi è forse la più dinamica, aperta e trasparente che abbia mai scritto.
Ho cercato tante volte di scrivere una canzone su cosa voglia dire suonare. Ne veniva fuori sempre una visione parziale, fuorviante. Suonare è il baricentro di tanti percorsi diversi apparentemente molto slegati tra loro, come strade che entrano nella stessa rotonda o radici che si uniscono in un albero.
Una canzone sola non mi bastava mai. Così per creare una visione che riuscisse a restituire la diversa dimensionalità di quello che provavo, scelsi di unirne tre o quattro che partivano da prospettive differenti.
Anche in questo caso dalla prima idea alla versione finale sono passati anni. La particolarità della canzone è stata che ogni qualche anno ne aggiungevo un pezzo in più. Ho costruito il pezzo assemblandolo in un collage che sembrava non dover finire mai.
Difficile capire alla fine se si tratti di tre o quattro canzoni diverse o della stessa scritta da tre o quattro persone diverse.
Le domande che avevo in testa originariamente erano tante, su tutte credo che la principale fosse: la musica mi sta conducendo verso un’identità o mi ci sta facendo allontanare?
Così mi sono sentito molti anni, come uno che si allontana da un’identità. Un’identità più promessa che effettiva, più figurata che concreta.
Riversare su quei pochi minuti le frustrazioni del mio io musicale corrispondeva a riversare un furioso senso di incomprensione che toccava tutto, in un vortice perenne. Stava diventando una dichiarazione sul mio ruolo di individuo nella società, esattamente come La Vita Immaginata.
Nella mia testa più piani di esistenza iniziavano a fondersi insieme.
I concerti mal pagati o non pagati affatto si accostavano armoniosamente agli articoli giornalistici mal pagati o non pagati affatto. Le nottate a parlare del più e del meno con gli amici in qualche parcheggio dopo il lavoro somigliavano incredibilmente a quelle passate sull’asfalto di un autogrill nelle ore antecedenti a qualche disastroso concerto suonato per cinque persone a Torino o Bologna. I lavori diversi accatastati dal lunedì al venerdì somigliavano a scalette sempre in divenire.
E i concerti di fronte a mille persone, gratis, prima di qualche artista affermato, arrivando e lasciando il locale come un fantasma, sembravano l’emblema di tutto quanto. Ecco, scrivevo una cronistoria dal punto di vista di qualcuno che, gira e rigira, si sente spesso un fantasma.
La domanda che mi ponevo era sempre la stessa: ma queste parole, che assemblo, trovo, scambio, enuncio e canto, sono parole al servizio di chi?
Sono una vitale necessità o semplice merce di scambio per qualcosa che non mi verrà mai dato? Sono espressione di sé o sono un inganno che faccio a me stesso?
Ecco dunque che la musica diventava tutto. Diventava un’età di passaggio in cui pareva che non si approdasse mai dall’altro lato del fiume. E allora è il guado stesso a diventare il luogo più famigliare. Un luogo che abiti ma che non riconosci mai, che fa sembrare vere parole che forse non lo sono.
Alla fine non è uscita una canzone e nemmeno tre, quattro cucite insieme. È uscito un monologo, un radiodramma degli anni sessanta, composto da istantanee sbucate fuori dalla psicorealtà, che raccontano probabilmente più di quanto io sappia.
C’è rabbia. Ma è una rabbia disinnescata, sublimata. Una rabbia colta nella metamorfosi verso una forma nuova. È la rabbia della difesa, non dell’attacco. Schivare, parare: ecco tutto.
Alcune canzoni, una volta che le hai, pensi che avresti voluto scriverle almeno una decina di anni prima. Cavolo, chissà cosa sarebbe stato se (in realtà non sarebbe successo niente).
Questa no. Non avrei potuto scriverla né cantarla in nessun altro momento che questo. In un tempo non lineare, nel luogo non luogo dove di solito abito.
Doveva essere una canzone su cosa volesse dire suonare. È diventata una canzone su cosa sia una casa.
Il 21 ottobre mi direte voi.