Rock N Roll
Qualche giorno fa ho assistito ad uno spettacolo di tre classi di terza elementare. Fondamentalmente si trattava di un concerto, perché lo show era completamente dedicato a canzoni. Alcune in inglese, altre in italiano, altre il cui testo erano le note della scala maggiore di DO e altre che erano fondamentalmente esercizi di sillabazione. Tutto sommato era un repertorio piuttosto variegato. Si erano preparati tantissimo ma prima dell’evento nessuno di loro mi pareva particolarmente teso, sicuramente per via del fatto che si sentivano protetti gli uni dagli altri.
Sul palco (che in realtà era uno spiazzo nel cortile della scuola) erano tutti allineati, distanziati e vestiti di bianco e blu. I genitori, di fronte, dovevano obbligatoriamente rimanere a distanza dietro ad un lungo nastro, sotto all’ombra degli alberi. Schierati tutti in fila, erano certamente una visione piuttosto impressionante agli occhi dei bambini.
Ebbene, durante una delle ultime canzoni, l’insegnante di musica ha annunciato all’accaldata platea una piccola novità nell’armoniosa formazione a circa cinquanta voci che ci aveva accompagnato fino a quel momento. Un bambino in prima fila avrebbe fatto da voce guida a tutti per condurli a cantare il brano successivo. Io, che alle prove della mattina ero presente, sapevo di quel piccolo momento di protagonismo. Sapevo anche che era stata un’idea dell’ultimo minuto e il bambino in questione lì per lì non era parso né turbato né ansioso all’idea di esibirsi spiccando sui suoi compagni.
Nel momento in cui la maestra ha annunciato la sua performance davanti a tutto il pubblico, gli altri bambini hanno iniziato ad incitarlo. «Vai vai, forza», «Dai, grande», «Bravo!». Lui ha cominciato ad abbassare lo sguardo con l’aria nervosa. All’incitamento dei bambini è partito in sequenza anche quello dei genitori. «Vai vai, forza», «Dai, grande», «Bravo!». Addirittura qualche applauso preventivo. A quel punto non c’è stato più niente da fare: il giovane solista si è messo a piangere come al funerale di Lady Diana. Non in modo sguaiato, ma con portamento ed eleganza, muovendo la testa ritmicamente come per cacciare via l’incombenza non voluta. Non erano vere e proprie lacrime di agitazione; il loro tempismo, la scandita progressione meccanica del loro arrivo in risposta alle acclamazioni lasciavano anzi intuire che fossero lacrime di pura commozione. Era travolto, disarmato. Era pronto a tutto, all’imbarazzo, alla fatica, forse al fallimento. A tutto tranne che all’affetto. Non così, non in quel modo.
Un suo compagno, di qualche posto più distante, rassicurava gli altri bambini dicendo loro: «E’ normale, è normale».
Al che il serpente che si morde la proverbiale coda ha continuato a stringere i denti: i genitori e i compagni, alla vista delle lacrime, hanno istintivamente proseguito con gli incitamenti, nell’intento di infondere il coraggio necessario per superare l’empasse. «Vai vai, forza», «Dai, grande», «Bravo!». Questo non faceva che aumentare il big bang dei suoi sentimenti. Per qualche secondo è parsa una situazione senza uscita.
Ad un certo punto una forza misteriosa ha preso possesso di lui. Ha fatto una serie di respiri e ha smesso di piangere, si è asciugato le lacrime da sotto gli occhiali. La musica è partita, ha fatto un passo in avanti verso il microfono e ha iniziato a cantare.