L’unica cosa che volevo evitare per il mio secondo disco era farlo uscire troppo tardi rispetto al primo. Me lo ripetevo tipo mantra durante gli ultimi mesi del 2016. Alla fine Nessuno Lo Deve Sapere sarebbe uscito nel febbraio 2019. Direi un successone. Vi lascio immaginare dunque che, no, le cose non si fecero troppo lineari.
E pensare che, più o meno nel periodo in cui conobbi Ita e Zava, e in cui l’intenzione di lavorare insieme era già forte, mi stavo portando avanti come non mai. Avevo incontrato un produttore, avevo selezionato materiale per almeno due dischi ed ero fresco di concerti su concerti, quindi non vedevo l’ora di fermarmi qualche mese per incanalare quella vitalità in un po’ di registrazioni soddisfacenti. Per la fine del 2017 volevo far uscire qualcosa, che fosse un singolo o un album intero.
Ormai io e Ita avevamo stabilito che potevo considerarlo mio manager anche se i nostri accordi erano ancora solo verbali, e ebbi la possibilità di conoscere meglio anche Zava lavorando con lui.
Avvenne in particolare durante un’occasione, quando fui invitato ad aprire un concerto estivo di Brunori in Piemonte, in un posto di nome Castagnole delle Lanze. A dire il vero mi fu proposto di aprire anche il concerto del giorno successivo, ma ricordo che non potei chiedere un ulteriore giorno di ferie dal lavoro che facevo all’epoca. Capitalismo: il nemico numero uno del rock ’n’ roll.
Comunque fu una giornata molto figa. Zava mi faceva da fonico personale, cosa piuttosto rara in un’apertura. Passai a prenderlo in stazione a Busto, direzione Asti, e ci conoscemmo un po’ meglio. Dovete sapere che Zava è Dostoevskij della musica alternative italiana. Ogni elemento meritevole di discussioni lo incastona in teorie più o meno politicamente strutturate rispetto le quali si può disquisire per ore. Un cervello molto europeo, una grande passione per Claudio Lolli e il Partito Radicale: come appresi, un ottimo compagno per un viaggio in auto verso il Piemonte.
Quando le cose, per qualsiasi motivo, vanno male, è in grado di fare una cosa che ho sempre osservato con tacita e assoluta ammirazione: trovare soluzioni. L’ho sentito lamentarsi un sacco di volte ma l’ho anche visto trovare contestualmente il modo di non lamentarsi più. Per uno come me è un atteggiamento umano del tutto meritevole di attenzione.
Quel giorno insomma, io e Zava ci ritrovammo a mangiare Kebab durante il soundcheck in questa enorme piazza piemontese, con uno dei palchi più grandi su cui mi fossi esibito fino a quel momento. Praticamente il palco di Brunori era formato da 7 o 8 micropalchi sul quale ognuno dei suoi musicisti aveva a sua volta a disposizione una roba tipo 4 strumenti diversi. Era il 2001: Odissea Nello Spazio del cantautorato italiano anno zero.
Il concerto fu uno dei miei ultimi chitarra e loop station e ricordo che fu un set difficile. Il pubblico di Brunori aveva qualche anno in più rispetto a quello di Motta o Calcutta e non fu facilissimo empatizzare; la vastità del palco non aiutò. Infilai nel finale di Ragnatele anche qualche verso di Il Pugile, che era una delle mie canzoni preferite di Brunori stesso, ma anche questo non bastò per percepire un po’ di energia in più. Comunque la portai a casa.
Volevo scambiare due parole con Dario ma ci riuscii pochissimo perché la maledizione degli opening è che non riescono mai a parlare con gli artisti che aprono, almeno fino a tarda notte. Arrivi al pomeriggio e loro han finito il check, fai il check mentre mangiano, mangi mentre vanno in albergo, inizi a suonare mentre tornano, finisci e si preparano a salire, suonano 2 ore. Se si è fortunati spuntano un paio di battute verso le 19: «Ciao, suono prima di te, piacere», «Ah bene, grazie». È così più o meno ogni volta. Verso l’una, quando hanno finito di firmare autografi e salutare amici, ci puoi fare qualche discorso più strutturato, che complice l’alcol e la stanchezza non ricorderai tu e non ricorderanno loro. Purtroppo con Brunori non potemmo attendere nemmeno questo: il giorno dopo la sveglia per il lavoro ci reclamava prepotentemente.
In piena notte io e Zava tornammo a casa, lo accompagnai a Milano e il mattino andai in ufficio fresco come una rosa dopo aver dormito ben 3 ore o giù di lì. Era un’estate ricca di vibrazioni.
Oramai tra me e i ragazzi c’era un rapporto consolidato. Talmente tanto che, per accavallamenti di vicende che qui non approfondirò, ci concedemmo il lusso di mettere le nostre visioni temporaneamente in stand by con l’intenzione di recuperarle più avanti. Sostanzialmente, ebbi un’offerta discografica nella quale cercai di includere anche loro a livello di management ma questa esigenza mi portò a fare alcuni numeri di equilibrismo per un po’. Iniziarono mesi estremamente complessi per me, durante i quali non riuscivo a tenere insieme la baracca. Lavoravo con produttori diversi, con tempistiche dilatate e prospettive sull’anno seguente che andavano cambiando come l’orizzonte per un viandante assetato nel deserto: sempre diverse ma sempre uguali.
Quel disco in lavorazione fino a quel momento si era sempre chiamato “Futuro”, che era anche il titolo di uno dei pezzi che avevo in tracklist. In quei mesi l’architettura dell’album fu fortemente ristrutturata. Alcune delle canzoni che avevo selezionato vennero scartate in favore di roba più recente. Avevo scritto Satelliti l’anno prima, scrissi Menta e lo strumentale Spirance e finii Lasciarsi Alle Spalle. Il titolo fu cambiato in Nessuno Lo Deve Sapere. Tra i pezzi che eliminai ci fu Camden, che nei piani originari avrei dovuto ri-registrare. Tra le altre canzoni messe da parte, c’era roba intitolata Gente Di Successo, L’insufficienza Di Ogni Schema, Traslocare, Siete Tutti Lontani, Quattro (che poi sarebbe diventata Itaca) e altre.
Con stentorea determinazione (e con grande confusione mentale) chiusi il grosso del lavoro. Ma dopo diversi mesi cambiarono alcune dinamiche del gruppo nel quale ero entrato e mi franò un po’ il terreno sotto i piedi.
Mi ritrovai, nell’estate del 2018, con lo stesso identico problema di quando avevo fatto Vademecum Del Perfetto Me: il disco era quasi finito ma non avevo più un’etichetta. Ovviamente io e Ita ci eravamo sentiti sempre con costanza. Lo aggiornavo su tutto, mi confrontavo con lui e gli facevo ascoltare le cose a cui lavoravo.
Penso che avvenne attorno a luglio che colsero la palla al balzo e dissero: lo facciamo uscire noi.
Nel corso di quel periodo i ragazzi avevano riflettuto più volte sulla possibilità di creare una loro label ufficiale, ma sono abbastanza sicuro che il detonatore ufficiale del progetto fu quel mio disco. Non so bene come saltò fuori il nome Vetro Dischi, ma ne ricordo il primo slogan: glass con class.
In quei mesi mi ero spiritualmente imbruttito. La mia vita ruotava attorno ad un disco che per mille vicissitudini in parte indipendenti da me non riuscivo a realizzare. I ragazzi mi diedero tutta la fiducia di cui potevo avere bisogno per le ultime, delicate, fasi di cura dei pezzi. Io e Teo ci mettemmo chirurgicamente a sistemare i dettagli e ci chiudemmo in studio da Giacomo Carlone per i mix. Il 24 novembre, giorno del mio compleanno, uscì il primo singolo: Compleanno, per l’appunto. Era la mia nuova prima uscita dopo tanto tempo e la prima uscita in assoluto di Vetro Dischi.
Il mio primo concerto ufficiale dopo una pausa di circa un anno, avvenne qualche sera dopo a Milano. Al Rock’n’Roll aprii in acustico l’artista romana Bipuntato. I pezzi vecchi non li ricordavo, i pezzi nuovi ancora non li conoscevo bene: le premesse erano ottime. In realtà, a parte una prima metà di live che ricordo come un po’ in apnea, fu molto bello. In chiusura suonai per la prima volta Satelliti. Quella sera, per qualche ragione, era presente tra il pubblico Riccardo Sinigallia, che mi disse che avevo “un timbro pazzesco”, il che bastò come iniezione di energia per i 6 mesi successivi.
Meno di un mese dopo fui contattato per un’altra apertura solitaria di dimensioni ancora più importanti. Galeffi chiudeva il suo tour con due grosse date, una a Roma e una a Milano. Per quest’ultima la location era il Fabrique. Quindi da zero a cento: un anno senza concerti, poi un concerto in un piccolo locale e subito dopo uno davanti a mille persone. Faccio quasi fatica, oggi, a rievocare la giusta impostazione mentale per affrontare con decisione un evento del genere. Ma suppongo che anche allora mi ci volle un po’. Ita quella sera era più nervoso di me, anche se da bravo manager non me lo diede a vedere e me lo confidò solo dopo. Salii deciso, perché i concerti nei posti grandi il più delle volte ti caricano in maggior misura di quanto ti spaventino. Mi sembra di ricordare che fu un concerto fighissimo, per quanto breve. C’era un ottimo pubblico, suonai per la prima volta Lasciarsi Alle Spalle e ficcai qualche verso di Wonderwall dentro Compleanno.
Sì insomma, se c’era del ghiaccio da rompere l’avevamo frantumato. Io esistevo di nuovo e Vetro Dischi era nata. In breve tempo artisti che lavoravano già con i ragazzi (su tutti Biro) e artisti nuovi (come Mille Punti) entrarono nel roster.
A febbraio uscì il disco in concomitanza con un bellissimo concerto a Varese e durante i mesi successivi ci rimboccammo le maniche per imbastire un tour. Nuovi problemi sorsero a questo punto perché era arrivato il 2019. La spinta propulsiva quasi magica che aveva portato un enorme pubblico a riversarsi ai concerti degli artisti emergenti negli ultimi due o tre anni era…svanita. I musicisti medio piccoli, come me, si ritrovarono per qualche mese un po’ sbigottiti: ma che sta succedendo? Che fine hanno fatto le ultime fette di torta? Pareva proprio che la torta fosse finita.
Questa consapevolezza, che nel mio caso maturò dopo un po’ di toccate e fughe tra Torino e Bologna, non fermò nessuno di noi. Oramai stavamo facendo la nostra cosa e non ci lasciavamo intimorire. E anzi, mentre lottavamo nei chilometri anche per le date con poco pubblico, lo spirito di Vetro Dischi si espandeva. Avete presente quelle scene tipiche dei film degli anni Ottanta in cui qualcuno crea un’azienda o un progetto e in un montaggio frenetico con una musichetta think positive ne vengono mostrati gli sviluppi in una irresistibile e coinvolgente ascesa? Tipo Ghostbusters. Ci sono loro che verniciano la sede, che lucidano il palo per la scivolata, che intrappolano i primi fantasmi, la segretaria sempre più oberata dalle telefonate, eccetera. Più o meno è così che ricordo quei mesi per Vetro Dischi. Solo che la musica di sottofondo erano le nostre canzoni.
Nel corso dell’anno successivo il team si ingrandiva e pian piano si cristallizzò in un’organizzazione del tutto nuova, che fu il risultato di una fusione con gruppi diversi: Totally Imported.
Mentre loro lavoravano a tutto questo, noi artisti stavamo là fuori con spade e amplificatori come i cavalieri della tavola rotonda nella missione di conquistare sempre più pubblico. Tra tonfi, serate medie e serate ottime arrivò il 2020. Quello prima era stato un anno impegnativo ma, come sappiamo, era solo l’introduzione per un biennio difficilissimo.
Ma da quando li conosco e soprattutto durante l’ultimo anno e mezzo non ho mai visto Ita, Zava e tutte le persone che lavorano con loro darsi per vinti. Anzi, proprio in questi mesi hanno raggiunto alcuni dei loro migliori risultati. Sono guidati da una forza che da un certo punto di vista non ha nulla di legato al reale, nel senso che non si lascia davvero influenzare da quello che succede tutt’attorno. Gli ideali, intesi come le idee, sono più importanti di quello che è visibile a occhio nudo.
La loro determinazione corrisponde alla loro morale. Penso che l’etica su per giù sia questo, specchiarsi in una visione e rispettarla guardando ad un generico altrove senza farsi intimorire. È un po’ come stare in un’etichetta fondata da Spinoza.
Per me i ragazzi di Totally sono una costante fonte di ispirazione.
E per uno che fa l’artista avere un’etichetta che fa anche da ispirazione, beh, è il massimo.