Nel dicembre del 2016 aprii per Francesco Motta al Circolone di Legnano. Il Circolone è un locale storico, noto per spaziare con scioltezza dal cabaret al teatro fino ai concerti rock. Tra le altre cose, è il luogo in cui fu registrata la mitica versione live di Alfieri di Elio e Le Storie Tese. Io ci sono cresciuto. Fino a qualche anno fa, se eri un performer di fama media e avevi qualche ambizione di tour nazionale, era una tappa che non poteva mancare.
In quelle settimane Motta stava vivendo il passaggio da artista in ascesa, fase che si era consolidata nel corso di tutto l’anno trascorso, a big. La sua produzione live stava evolvendo in grandezza e quello sarebbe stato uno dei suoi ultimi concerti in un locale “piccolo”. Infatti l’atmosfera era piuttosto buffa. La produzione sul palco era gigantesca, del tutto sproporzionata per l’ambiente. Era come vedere un tour da palazzetto in un locale da 500 persone. Mi fu proposta l’apertura, chitarra e voce. Fui molto felice dell’opportunità, soprattutto perché arrivava a chiusura di un vorticoso periodo ricchissimo di soddisfazioni, in cui c’erano state settimane di concerti continui. Quello, subito dopo l’uscita del mio primo disco, era stato l’anno delle aperture, come poi ribattezzato l’aper-tour. Senza etichetta, completamente autoprodotto, mi ero improvvisato ufficio stampa di me stesso e qualcosa stavo ricavando. Quella sera mi ricordo un freddo pazzesco fuori e un caldo pazzesco dentro. Una calca che oggi sfiora la fantascienza. Aprii con Zero e per tutta la canzone non sentii nulla perché le mie spie erano totalmente spente. C’era un grande coinvolgimento. Il casino era tale che riuscii dopo il mio set a trasportare la mia chitarra e la mia tastiera dall’uscita laterale solo con l’aiuto di qualcuno e spostando tutto al di sopra delle teste del pubblico. Per lo stesso motivo di affollamento, dopo essere uscito dal cortile laterale non potei in alcun modo rientrare attraverso la gente e non riuscii praticamente poi a vedere nulla di Motta, ma fu comunque una gran serata. C’era anche Appino, con cui scambiai qualche parola, e portai delle chiavette usb con alcune mie canzoni nuove da regalare ai ragazzi di Woodworm. Ora che ci penso, devono averle ancora.
Posso dire sinceramente che in quei giorni stavo navigando un po’ su un’onda in crescita, o qualcosa del genere. Dal fenomeno di Calcutta dell’anno precedente, la scena indipendente italiana era decisamente al centro di un’esplosione e avevo in effetti la concreta sensazione, pur nel mio piccolo, di farne parte.
La sera seguente avevo in programma un altro concerto a Varese, questa volta con la band, alle Cantine Coopuf. Eravamo in trio, io Fry e Pep. Davo per scontato che non sarebbe venuto nessuno perché credevo che il grosso di quelli che mi seguivano non mi raggiungessero per due concerti in due giorni di fila ad appena 30 chilometri di distanza. Vero è che, a memoria, non vidi molti volti della sera prima ma con mia grande sorpresa mi sbagliai sul flop di pubblico: venne fuori che a Varese avevo diversi fan, reali, tra ragazzi locali. Ancora non mi spiego bene il perché ma non pochi ragazzi liceali di Varese e dintorni conoscevano la mia musica e le mie canzoni. Molti di loro si presentarono alle Coopuf. È una serata che ricordo bene. Questi ragazzi giovanissimi che cantavano i pezzi e ballavano come ad un concerto degli Smiths. Pogavano, saltavano, urlavano cose. A occhio, erano tutti piuttosto carburati alcolicamente, ma la loro partecipazione era davvero sincera. Due ragazze fecero irruzione di palco a metà set per chiedermi se potevo suonare anticipatamente Ragnatele perché poi dovevano andare via. Non una richiesta che facesse sobbalzare dalla gioia una band che si stava esibendo ma le accontentammo perché erano davvero divertenti. Come altre volte chiudemmo con una versione lunghissima e psichedelica di Camden.
Un ragazzo quella sera mi disse: «Secondo me tra due anni tu hai in mano la scena indipendente italiana». Quanto me l’ha tirata.
La doppietta formata da quel concerto e l’apertura a Motta della sera precedente bastò a darmi lo sprint per entrare nel 2017 con fiducia.
Un paio di settimane dopo capodanno ricevetti un messaggio nella mia pagina Facebook. Era di un ragazzo che non conoscevo di nome Francesco, e diceva più o meno (anzi esattamente, sono andato a rivederlo) così: «Ciao Brenneke, mi chiamo Francesco Italiano, mi occupo di management e comunicazione in ambito musicale. Innanzitutto volevo farti i miei complimenti per il tuo lavoro, da addetto ai lavori ho molto apprezzato le tue canzoni. In secondo luogo volevo dirti che mi piacerebbe fare due chiacchiere con te per capire qual è la tua situazione in ambito etichetta/manageriale/ufficio stampa ecc.. chi lo sa magari ne può nascere una collaborazione. Grazie mille e scusa il disturbo».
Ora. Le cose erano andate così. Dovete sapere che le Cantine Coopuf era di fatto la parte sottostante di un altro celebre locale di Varese, il Twiggy (che è stato, ainoi, una delle vittime illustri della pandemia). Un tempo erano un tutt’uno ma poi si erano separati per motivi che non ho mai capito. Era rimasto un certo astio tra parte sopra e parte sotto, che somigliava all’inizio di una di quelle storie secolari che andavano forti nel medioevo toscano. Entrambi locali per musica live, stesso edificio, una lunga storia condivisa. Alle Coopuf era rimasto un palco e una fisionomia adatta ai live elettrici. Lo spazio del Twiggy era meglio adattabile a situazioni un po’ più intime. Insomma, inutile specificare che i rispettivi direttori artistici o organizzatori non riuscivano a levarsi una certa competitività, indipendentemente dagli eventi. Si piazzavano i live le stesse sere, si rubavano i DJ, cose del genere. Una roba tipo Zio Paperone e Rockerduck.
Quella sera Francesco aveva organizzato per il Twiggy il concerto del bravissimo cantautore piacentino An Harbor, al secolo Federico Pagani. Ma una cosa non gli era andata giù: un sacco di gente aveva boicottato il live per andare a sentire “l’altro” evento, quello delle Coopuf. Chi stracazzo era questo Brenneke che gli aveva fregato il pubblico? Irritato e indispettito i giorni seguenti era andato a dare un ascolto, certamente per confermare i sospetti di un’antipatia oramai conclamata. «Stronzo, è pure bravo», pensò. Fu in virtù di questa curiosa connessione che mi contattò.
Io fui davvero lusingato di quel suo messaggio ma al tempo stesso sapevo di nutrire, specialmente in quel periodo, un certo sospetto nei confronti degli addetti ai lavori. Li frequentavo oramai da quasi 10 anni, ne avevo conosciuti alcuni ottimi e altri delinquenti. Avevo certamente dei problemi di fiducia: non sapevo più cosa pensare della fiducia. Ad ogni modo ci sentimmo per telefono il giorno seguente: non saprei dire che sensazioni mi lasciò quella telefonata perché…non me la ricordo. Lui ancora oggi sì. Il fatto che non mi sia rimasta traccia mi fa pensare che trattai quel nostro primo contatto con una discreta formalità, sicuramente in un automatico gesto di difesa.
Per caso proprio in quei giorni feci un aperitivo con un mio carissimo amico del liceo, Luca. Non ci vedevamo da diversi mesi e avevamo un sacco di cose da raccontarci. Lui era lontano dal mondo musicale, ma gli spiegai di questi sviluppi con questo tizio che mi aveva contattato. E lui «Ma dai, pensa che ho un ex compagno di università che nella vita fa proprio quello». Va beh, avete capito: saltò fuori che era Francesco. Quante probabilità c’erano che fossero ex compagni della facoltà di Scienze Politiche? «Fidati di lui - mi disse - perché è davvero un grande». Lo presi come un segno; le parole di Luca assottigliarono radicalmente la mia barriera protettiva nei confronti del mondo esterno: se per lui era una persona di valore, era il caso di prendere in considerazione la possibilità che effettivamente lo fosse.
Io e Francesco ci incontrammo dal vivo per la prima volta ad un concerto dei Belize a Milano, al Mare Culturale Urbano, a fine gennaio. In apertura c’erano i Manitoba. Intanto scoprii che nessuno lo chiamava per nome, lui era per tutti semplicemente Ita. Fu il primo di una serie di incontri durante i quali, suppongo, ci si stava ancora studiando. Uno di quei pomeriggi passai anche a trovarlo in uno degli uffici in cui lavorava. Bazzicò anche Ghemon quel giorno, ci presentarono ma io non lo riconobbi perché aveva appena tagliato i capelli.
Incontro dopo incontro, io e Ita ci conoscemmo sempre meglio. Gli raccontai di tutte le mie vicissitudini, disavventure e avventure. Gli spiegai a che punto ero, o perlomeno a che punto pensavo di essere e soprattutto dove stavo cercando di andare. E anche lui mi raccontò di sé. Come era approdato alla musica e perché, cosa aveva creato e soprattutto in cosa credeva. Penso che in quelle conversazioni capimmo che credevamo nelle stesse cose, anche se non sapevamo dire bene in che senso. Avevamo la stessa età e sentivamo entrambi che la musica non è niente senza persone valorose a condividerla e che l’autorevolezza e l’autorità sono due cose ben diverse confuse troppo spesso.
Per diversi mesi la natura della nostra collaborazione rimase sfumata. Sapevamo di voler lavorare insieme, ma ci riservavamo di comprendere in che termini con la dovuta calma.
Sono piuttosto certo che conobbi Zava la stessa sera dei Belize a Milano, ma non ne ho memoria, probabilmente perché fummo solo rapidamente presentati. Lo ricordo, invece, nel primo concerto che lui e Ita mi videro suonare dal vivo, a febbraio, in un piccolo ma molto affascinante circolo Arci milanese. Di formazione Zava (di cui per diverso tempo non seppi il nome completo) era un fonico, ma parlandoci risultava soprattutto un teorico dell’etica del mercato musicale con un instancabile spirito da imprenditore illuminato. Era anche lui di Varese e con Ita, di cui era non solo socio ma coinquilino, aveva elaborato una sorta di socialismo intellettivo.
Insieme davano l’idea di intrecciare il cervello così spesso che a volte pareva la scena di Ghostbuster in cui vengono incrociati i flussi. Avevano già fatto una marea di cose assieme; aneddoti di successi o sconfitte si alternavano continuamente dai loro racconti, spesso iniziati da uno e finiti dall’altro. Una coppia di attori del cinema hollywoodiano, di quelli che fanno insieme un sacco di film che o vendono tantissimo o diventano dei cult.
Quell’Arci, in quella sera di febbraio, non era esattamente gremito di pubblico ma lo sembrava, perché era un locale davvero minuscolo. Fu un concerto rumorosissimo con alcune cose interessanti, come una versione piuttosto elettronica di Se Io Fossi di Gesso che io, Pep e Fry avevamo imbastito negli ultimi giorni. Non c’era un vero fonico: ce n’erano 8. Quel concerto era stato scelto come esame finale di un corso per fonici che il circolo aveva tenuto per alcuni iscritti. Ad ogni pezzo si alternava un nuovo tecnico al mixer, in una meravigliosa incoerenza surreale che spostò la nostra esecuzione verso la San Francisco del 1967.
Dopo il live mangiavo pizza in camerino parlando con la gente e guardando le foto della Resistenza milanese appese alle pareti. Il backstage altro non era che il piano superiore della palazzina che ospitava il circolo, ed era una di quelle belle case milanesi con il balconcino stretto e lungo che dà sul cortile. Era la prima volta che i miei due nuovi simpatizzanti varesini mi vedevano suonare dal vivo. Non era stato un concerto memorabile e ne ero consapevole ma non sembravano curarsene perché la loro visione andava ben oltre. Eccoli lì, in questa stanzetta al primo piano di un minuscolo locale milanese, Ita e Zava. Ci conoscevamo da pochissimo ma a me sembrava molto di più. Non sapevamo ancora cosa avremmo combinato. Ma, avevo la sensazione, sarebbe stato qualcosa di buono.