Non torneremo mai più
Un po’ di mattine fa mi trovavo in auto e guidavo. Mezz’ora, quaranta minuti, due ore. Sulla A4 come va va, non lo sai mai per quanto tempo ci rimarrai.
Giravo le stazioni radio come una roulette russa. Quando sono in macchina da solo di rado rimango sulla stessa stazione per più di 2 minuti, la mia attenzione selettiva è fragilissima e cedo spesso ad una compulsione per un cambio-stazione-facile che definirei ludopatica. Forse al prossimo click ci sarà sempre una canzone più bella, una notizia più interessante, un programma più appassionante. E allora continuo a cercarlo, con il pollice sul tasto del volante.
Su Radio Popolare c’era uno che cercava di lanciare un servizio ma non ci riusciva perché faceva casino coi volumi: «Tranquilli, ogni tanto mi capita, a volte inverto il volume in entrata e in uscita». Nessun problema, lavori solo in radio.
Su Radio24 Vito Mancuso parlava del Papa e dell’aborto e per qualche motivo mi ci sono soffermato qualche minuto. Spiegava che il Papa ha dovuto di recente ribadire le posizioni anti abortiste della Chiesa per riallinearsi rispetto ad alcuni malumori interni nei confronti del suo progressismo. Lo aveva detto molto chiaramente a fine settembre: «Durante l’operazione qualcuno mi voleva morto». Ho pensato a quanto suoni pazzesca una frase del genere in bocca a un Papa.
Ho cambiato stazione dopo la telefonata di uno che difendeva l’ortodossia delle istituzioni religiose. Su Virgin Radio c’erano gli AC/DC ossia l’unico gruppo che, probabilmente per via di un’antica maledizione, sia loro consentito trasmettere. La rete sportiva non ho fatto manco in tempo a capire di cosa parlasse e ci rimango in genere talmente poco che non so nemmeno come si chiama. Posso azzardare per certo che ci sia dentro la parola sport. Mi sono aggrappato a Lifegate come ad una boa in acqua e sono piombato nel bel mezzo di alcuni suoni che lì per lì mi sembravano di fine anni Settanta. Per i primi secondi pensavo fosse un vecchio pezzo della Bertè.
Mi è bastato poco per capire che si trattava di Giorgio Poi. Conosco la discografia di Giorgio, ma non conoscevo questa canzone. Con ancora in mente la Bertè, mi è tornata in mente la sua cover de Il mare d’inverno e ho pensato a quanto fosse buffo che in questo caso scambiassi lui proprio per lei. Forse, ho pensato, è questo il significato di essere derivativi. O più probabilmente non avevo scambiato Giorgio Poi per la Bertè, ma inconsciamente lo avevo scambiato direttamente per la sua cover della Bertè. Anche perché, ho pensato, io non conosco l’opera della Bertè.
Mentre mi attraversavano queste riflessioni la canzone in sottofondo si muoveva con una sinuosità misteriosa. Era circa a metà, mi punzecchiava, ma intanto si nascondeva dentro sé stessa. Una specie di canzone sirena. Il tempo di accorgermi che stava sprigionando qualcosa di particolare ed era già finita.
In coda per lo svincolo di Cormano ho fatto una di quelle cose da non fare mai, ho agguantato il telefono con la mano destra e con un occhio sulla strada e uno sullo schermo l’ho collegato al bluetooth e sono andato alla ricerca del pezzo su Spotify. «I pomeriggi», mi è parso di leggere, primo brano in alto.
Ho fatto il tentativo. Era lei. L’ho riascoltata dall’inizio imbottigliato nel traffico andando a 5 all’ora, fino all’autostrada del sole.
Intanto, una canzone in minore.
Le canzoni in tonalità minore non le scrive più nessuno, per dei motivi che risultano a me incomprensibili. Cioè no, sono comprensibili ma sono davvero la cartina al tornasole di un’emotività collettiva a forma di emoticon. Spiego brevemente per chi non è pratico di teoria musicale. Possiamo considerare gli accordi musicali come suddivisi in due macrocategorie, i maggiori e minori. Diciamo che, super semplificando, gli accordi maggiori hanno un suono felice, quelli minori un suono triste. Accostandoli gli uni agli altri, usandoli un po’ come dei colori che si mescolano insieme, si creano le armonie.
Queste hanno sempre un singolo accordo di riferimento, quello che dà la tonalità generale appunto, e questo è o minore o maggiore.
Le tonalità maggiori sono più rassicuranti, più positive, apparentemente più innocue. Sono le preferite della schifo società dei consumi. Le tonalità minori invece rimandano immediatamente a qualcosa di più tormentato e incupito. Molti le evitano, perché evocano atmosfere che se non dosate opportunamente superano sulla sinistra la malinconia e vanno dritto dritto alla tristezza se non all’inquietudine. Figuratevi la bassa manovalanza della canzone pop quanto può essere intimorita dalla prospettiva di INQUIETARE l’ascoltatore. Non sia mai: e chi la prende la loro robaccia per lo spot della Vodafone se è addirittura INQUIETANTE? Quindi il più delle volte gli accordi minori sono inseriti ad arte, specificatamente incastrati in contesti maggiori, solo per provocare emozioni facilone Netflix style.
C’è poi anche chi, esclusivamente con accordi maggiori, è riuscito a rappresentare un tale livello di angoscia da far impallidire qualunque accordo minore. I Nirvana per esempio.
Ma non divaghiamo. Questo pezzo di Giorgio Poi era finalmente minore con fierezza. Evocava delle ombre con il suo andamento ritmico e le citava addirittura nel testo, senza paura di eccessiva seriosità. Creava in me un piccolo vortice di pathos che mi portava ad analizzarne gli elementi come con una lente d’ingrandimento.
C'è la mia ombra sul muro, sì, m'assomiglia, è la mia di sicuro: è sufficiente quella titubanza prima della conferma a insinuare il dubbio che non siamo come pensiamo. Mi ha fatto pensare a quella frase di William Golding da Il Signore Delle Mosche, una delle pochissime citazioni letterarie che ricordo a memoria: se le facce illuminate dall'alto o dal basso sono differenti... che cos'è una faccia? Che cos'è tutto?
Il basso sembrava provenire dai REM di Fables of the Reconstruction, la chitarra sembrava una cosa di Morrissey. Quella batteria disco disumanizzata, forse proprio non umana, pareva venire da un album di Battiato in cui Franco si era dimenticato i synth. Il tutto rimandava al Battisti di Con il nastro rosa.
Senti le ombre dei tuoi amici sopra i vestiti: come se ci fossimo dentro tutti, nella costruzione delle identità di tutti? Se non cambio si mette male: eccolo lì, il viaggio collettivo dell’ansia personale. Mi sa che l’individuo ha poi poco di così individuale. L’ansia da prestazione singola è quella collettiva e viceversa, mentre sta arrivando l’inverno. Sta arrivando il freddo.
Gli accordi che scendono sempre di un tono, da minore a maggiore a maggiore, manuale della tradizione folk. In stereo si rimbalzano perfino delle pennate stoppate che farebbero la felicità di Nile Rodgers.
E poi il climax di un ritornello in cui spunta addirittura un accenno a Morricone. Non torneremo mai più, ripetuto continuamente, come un mantra esorcizzante sotto ad una chitarra dalle venature western. Con una voce che non sembra appartenere a nessuna età. Le parole che lasciano un dubbio che si reitera continuamente. Uno sprone al superamento delle debolezze o un rimpianto per un tempo che passa e tanti saluti? Ma Giorgio, dopo questo inverno che arriva, non ci sarà una nuova estate? Non c’è sempre il calore dopo il gelo? Ogni anno. Ogni mese. Ogni giorno?
I nostri profili fatti di carta carbone, bui come caffè, che si susseguono continuamente in su e in giù come il bilanciere di un metronomo meccanico.
I pomeriggi passati a pensare. A soffiare sul vento. È la noia, la nostra noia, Giorgio, il nostro rifugio felice? Quei pomeriggi, dove sono finiti?
Il sobbalzo verso la fine, quando in un cambio di dinamica viene riformulato il motivo del ritornello in un’apertura maggiore con una mini orchestra che cita Gino Paoli per pochissimi secondi, facendo risaltare l’attacco successivo con un’enfasi eccezionale.
Una continua riflessione, un anello circolare fino a quell’ultima rullata che arriva troppo presto e che ti costringe a metterla da capo, per indagare ancora.
E infatti. Finita, l’ho rimessa e mi ci sono rituffato. Rifinita, l’ho rimessa di nuovo. Una nuova forma di ludopatia: scoprire se la stessa canzone riusciva a dirmi di più alla volta successiva. Ci riusciva. Più la ascoltavo, più cresceva il mistero, più dovevo riascoltarla. Giorgio ma che cavolo hai fatto?
Mentre entravo in Autostrada del Sole dribblando i lavori in corso, una Porsche blu scatenata faceva la gincana tra noi poveri. Potevo oramai cantare con precisione tutto il ritornello. Ora della barriera di Terrazzano potevo cantare ogni passaggio delle strofe.
Mi sembrava di conoscerla da sempre, proveniva da chissà dove. Non una canzone, ma un’ipnosi, la porta sul retro di uno strano sogno fatto da qualcun altro ma ricordato da tutti.
Non torneremo mai più, ma io mi sento bene anche qui.