Francamente non so bene come fossi finito a Parigi.
Il tour di Vademecum era finito da un paio di mesi, avevo un disco da scrivere e volevo lavorare su alcuni nuovi arrangiamenti delle mie canzoni vecchie. Con la band stavamo pensando di aggiungere alcuni elementi inusuali nel tour successivo, su tutti un violoncello fisso sul palco. Giorgio Tribeca, il lighting designer dell’ultimo tour, conosceva questo bravissimo multistrumentista di nome Massimo Re, pordenonese trapiantato a Milano che suonava spesso all’estero con il nome d’arte di Screen. Inseriva il violoncello in contesti elettronici, con i loop e altra roba. Ci avevo fatto un aperitivo per parlare della possibilità di unirsi al circo, non conosceva bene la mia musica ma sembrava interessato. Eravamo tutti gasati all’idea di iniziare a fare delle prove con Massimo. In mezzo a tutto questo stavo pensando di iniziare a guardarmi attorno per cambiare casa, magari avvicinandomi a Milano. Insomma, ero in un vortice di cose da fare.
Tuttavia, quando il mio amico fonico e produttore Enrico Cassalà mi buttò lì di accompagnarlo per un viaggio di lavoro a Parigi insieme ad un paio di altri fonici la trovai un’idea interessante.
Loro sarebbero rimasti lì due mesi a dire il vero. Avevano un lavoro per un pacchetto di colonne sonore commissionate da Sky e Enrico era riuscito ad ottenere la prenotazione di uno studio parigino in cui sognava di lavorare da un sacco di tempo, l’Electrique Camembert, che conteneva alcune delle strumentazioni originali degli anni settanta dello storico Château d’Hérouville. Con lo studio a disposizione, era riuscito a farsi dare il permesso per attaccarci alcuni altri lavori
Io e Enrico eravamo amici da parecchio tempo e quando ci incrociammo nel backstage del concerto che Giorgio Poi e i Phoenix tennero quel marzo a Milano se ne uscì con questa proposta. - Partiamo mercoledì se ti va! Nel nostro appartamento c’è una stanza in più -.
Non ci pensai nemmeno tanto, decisi di andare e basta.
Qualcuno nell’entourage si irrigidì un po’.
- D’accordo, quando torni?
- Non ne ho idea.
- Ah.
Biglietto di sola andata. Ero già sparito un paio di settimane dopo la fine del tour e ora si stava lavorando a pieno regime sul futuro di tutti ma feci capire ai ragazzi che mi serviva un altro po’ di stacco. Non lo avevo ancora detto a nessuno ma mi stavano salendo molte insicurezze assemblando il materiale per il nuovo disco. Forse andare a Parigi a gironzolare un po’ e osservare Enrico lavorare alle sue cose mi avrebbe fatto bene.
Sceso dall’aereo a Charles de Gaulle, mi sentivo un po’ un bohémien fuori tempo massimo. A fine anno avrei compiuto 29 anni, era ancora il caso di assecondare gli istinti girovaghi dal sapore universitario e lasciare le scene del crimine per il semplice fatto che potevo permettermi di farlo? Forse provavo semplicemente sensi di colpa. I miei amici dei giri giovanili erano tutti o quasi abbondantemente già inscatolati dentro a orari da ufficio, capi da assecondare e routine più grandi di loro. Tra le persone che conoscevo e che lavoravano nel mondo della musica, diverse avrebbero potuto sparire di colpo l’ultima settimana di marzo per andarsene a Parigi per un tempo indefinito. Tra quelle che conoscevo nel mondo normale, o come lo chiamavo io diurno, nessuno avrebbe potuto farlo. A meno di creare una scia di casini professionali e personali insormontabili. L’avevo sempre trovata una cosa triste per loro, ma questo sentimento stava iniziando ad evolvere. Sempre più frequentemente iniziavo a trovare la mia libertà una cosa inadeguata per me. Faceva bene o male alla mia capacità di organizzare il mio futuro?
I giorni seguenti furono comunque belli. Al mattino mi svegliavo mentre i ragazzi andavano in studio, che si trovava dalle parti di Ménilmontant. Andavo a fare dei giretti che comprendevano un discreto interesse gastronomico. Di solito poi li raggiungevo e il più delle volte mi ritrovavo a suonare qualcosa anche io.
La sera uscivamo sempre in qualche club di Belleville ad ascoltare la musica o a parlare con la gente.
Un giorno raggiunsi i ragazzi in studio per pranzo. Avevo portato roba salata burrosa buonissima per tutti; stavano riascoltando un progetto che avevano iniziato in mattinata, una specie di strano movimento tribale con drum machine e basso Motown, con alcune chitarre che sembravano dei My Bloody Valentine o qualcosa di simile. Commentavamo che forse si stava chiedendo un po’ troppo sforzo immaginifico alle produzioni di Sky per poter inserire qualcosa del genere in un progetto. Ma d’altro canto una parte delle indicazioni dava spazio all’immaginazione degli autori. Almeno, così c’era scritto nelle direttive.
Poco dopo che arrivassi io ci aveva raggiunto anche un personaggio che non avevo mai visto, si chiamava Tullio. Era un produttore importante romano della RAI, di passaggio a Parigi e piuttosto amico di Enrico. Si erano conosciuti lavorando su una roba di Fiorello. Una cinquantina d’anni, massiccio, maglietta Lacoste, pizzetto e baffo sottile ben curato, capelli ancora da esibire, pantalone di velluto a coste e stivaletto marrone. Occhiali da sole a goccia che non toglieva mai.
- Che state a fa, la musica de’ morti ammazzati de Suburra?
Era un bel tamarro divertente ma piuttosto agitato. Continuava a guardare il telefono e lamentarsi di un generico spaccacazzo che lo doveva chiamà.
- Questi non capiscono che devono fa’ nemmeno se je metti di fronte cristo ‘n croce e je dici mo preghi.
Ora, l’Electrique Camembert era uno di quegli studi costruiti su una unica sezione con dentro varie combinazioni regia/ripresa, di diversa grandezza in base alle necessità. Studio A, B, C e così via.
In mezzo, qualche spazio comune, tra cui un mega salotto con tanto di angolo cucina incorporato, migliore di tante cucine da monolocale milanese che avevo visto.
Ufficialmente lo studio di Enrico e i suoi era il C. Ma quel giorno, approfittando della vuotezza dello studio A, il più bello, avevano deciso di infilarsi quatti quatti lì senza dire nulla a nessuno.
Era uno spazio assurdo, con questa fila di synth d’epoca che occupavano una parete intera e una sala ripresa al di là del vetro che avrebbe contenuto una piccola filarmonica.
- Oh se han bisogno ci cacciano -. Come quando al mare prendi l’ombrellone di un altro e poi nel caso ti sposti. Italiani all’estero.
Mentre ascoltavamo le produzioni, notammo più movimento del solito nei corridoi. Aprii la porta e andai a curiosare. Nell’area comune era entrato un gruppetto di tizi inglesi, con le loro giacche hipster e le valigie in mano. Sembravano appena arrivati dall’aeroporto. Qualcuno che viaggia in aereo soltanto per usare uno studio userà la sala più bella o la meno bella? Addio studio A, per quel mattino la pacchia era finita.
Tornai dagli altri.
- Niente ragazzi mi sa che ci sfrattano, questi altro che prenotarla sta sala, se la saran comprata.
- Fa’ finta di niente, fa’ finta di niente.
Alzammo il volume. Dopo pochi secondi qualcuno aprì la porta.
- Allons-nous déranger?
- Non non, aucun problème, entrez.
Tigrane, l’assistente di studio, spiegò a Enrico che questo gruppetto di inglesi avrebbe avuto bisogno dello studio A quel giorno.
Questi si affacciarono, i volti nordici sorridenti, i cappellini un filo calati. Erano quasi timidi.
Però stava succedendo una cosa divertente.
Tigrane, che alcuni giorni c’era e altri no, non aveva capito che noi avevamo occupato lo studio senza chiederlo a nessuno e gli inglesi men che meno. Pensavano insomma che la nostra presenza fosse legittima ed erano venuti a richiedere ufficialmente il piacere, il favore, la cortesia, di cedergli la sala per qualche ascolto. Potevamo anche stare lì, avrebbero fatto in fretta.
- Ma certo, figuratevi. No no nessun problema ve lo cediamo volentieri, è un piacere.
Falsissimi italiani.
Mentre ci alzavamo ci presentammo brevemente, loro erano in cinque. - Il est un chanteur italien, Brenneke - fece Tigrane indicandomi a quello che se ne stava più in disparte, un po’ di barba rossa corta e il cappello.
- Hi, James
Hi. Ci stringemmo la mano. Io e Enrico ci guardammo calamitici per mezzo secondo. Nella stanza insieme a noi c’era James Blake.
Mantenemmo il contegno come se fosse normalissimo per noi incontrare star internazionali negli studi sparsi per il mondo. Ci sedemmo in disparte mentre loro attaccavano le loro cose. Parlavamo tra noi fingendo disinteresse ma in realtà fremevamo come dei pettirossi infreddoliti in attesa di vedere su cosa stavano per lavorare. L’unico a cui non fregava nulla era Tullio, che continuava a guardare il suo telefono, ignaro di essere in studio con una popstar che probabilmente prima di entrare lì aveva mandato un vocale a Beyonce.
Il team di Blake iniziò ad ascoltare alcuni pezzi dalle casse clamorose dello studio A, ad un volume contenuto. Li passavano in rassegna parlottando tra loro e appuntando delle cose, modificando qualcosa di tanto in tanto. A volte dopo poche battute o frammenti passavano ad altro, poi si giravano verso di noi per piccoli sguardi di approvazione
- Is it good?
Era ovvio che lo facessero più per cortesia che per reale interesse ma il clima era bello. Le produzioni oscillavano tra cose house/grime fino all’r&b degli anni novanta con elementi che sembravano registrati secondo la modalità ASMR. Guardare questi producer affrontare questi pezzi con quel livello di leggerezza era davvero una grande fonte di ispirazione.
Intanto Tullio aveva iniziato a fare avanti indietro tra lo studio e il corridoio. Nessuno pareva curarsene, presi come eravamo tutti dalla musica. Ad un certo punto smise di rientrare. Nei momenti di pausa lo si sentiva solo parlare in romanaccio al telefono camminando avanti e indietro.
- Oh fratè, è una roba da Assisi, che je devo dì a San Francesco di farla come vuoi te?
- Ma che cazzo me ne frega a me dei problemi di Barilla? Mo te trovo pure lo sponsor io, faccio prima a sta’ al catering
- Ma Carlo Conti ce sta o non ce sta? E a me lo chiedi? E chiedi all’abbronzato no?
Era evidente che questo programma in RAI gli stava dando qualche grattacapo. Blake mise su una base di synth molto ambient e iniziò a lasciarla scorrere per valutarla con un po’ di distacco. Ci ritrovammo tutti a lasciarci condurre in una specie di meditazione digitale.
- Ah cocco, mo mi hai rotto er cazzo, io e Silvana l’abbiamo già scritto dieci volte a te e a quell’altro rincojonito dell’amico tuo: non c’è Heather Parisi chiaro? Non c’è, non c’ha voja, porca puttana. Chiedi alla Cucinotta, a Geppi Cucciari e chi vuoi te. Oh non c’è Heather Parisi! Non c’è Heather Parisi! NON C’E’ HEATHER PARISI!”
SBAM! Rumore di porta chiusa lontana. Tullio se n’era sparito senza salutare per chissà dove a inseguire le sue crisi di nervi da RAI. Tutti nella stanza, sia noi che i nostri nuovi compari anglofoni, scoppiammo a ridere come ossessi. Noi con risate di riconoscimento, loro con risate di sorpresa. Senza comprendere minimamente ripetevano a pappagallo “Non c’è Heather Parisi, non c’è Heather Parisi” e ci interrogavano su cosa volesse dire. Mi ritrovai allora a cercare di spiegare a James Blake chi fosse Heather Parisi. She’s...she’s...Mi accorsi che non in realtà non sapevo bene chi fosse Heather Parisi. Ma che cavolo aveva fatto oltre alla cieca in Grandi Magazzini?
- She’s something like a english or american showgirl famous in Italy.
Poteva andare.
- Ahhh
A loro interessava relativamente chi o cosa fosse Heather Parisi. A farli uscire di testa era stata la frase in sé, la sua musicalità, la sua capacità ipnotica. L’irripetibilità di un insieme di suoni mescolati in modo casuale dentro un qui ed ora incomprensibile e solo in quell’equilibrio temporaneo comprensibile. Un’ilarità ci aveva uniti e aveva dato senso a quello che eravamo insieme, almeno per un istante. Così lo sentivo io, ma credo che ognuno nella stanza a modo proprio provasse la stessa cosa.
Ne approfittammo per una pausa caffè (americano). I ragazzi ci spiegarono che si trovavano a Parigi per altre faccende di ritorno da alcuni giorni di distensione. Stavano registrando il disco in America ma James aveva deciso di approfittare della disponibilità dello studio per alcuni ascolti in un luogo nuovo prima di tornare al lavoro intensivo.
- Ok, guys can we listen the last song?
Ma certo. Si misero di fronte al computer e James aprì un progetto nuovo. Schiacciò Play e sembrò di iniziare un viaggio. Un arpeggio di pianoforte irregolare introduceva un cantato soul che si risolveva dentro ad un ritornello con una strana inquieta sensazione di timore. Poi tornava l’armonie delle strofe e ogni volta parevano l’alba e il tramonto. Era come se la natura si fosse fusa con dei microprocessori.
Dopo quasi tre minuti iniziò un proseguo in larga parte strumentale con solo poche incursioni vocali. Era assolutamente straordinario ma dalle occhiate tra loro percepii che i nostri nuovi amici erano insoddisfatti.
- Something missing, yes
Evidentemente alla canzone mancava qualcosa, qualcosa che non capivo. Secondo me era sensazionale.
James riportò indietro la parte e la mise in loop.
- Don’t know, maybe something like a jazz trumpet
- Mmm
James accennò canticchiando con la sua voce ultraterrena a qualche melodia. Era in effetti la prima volta che lo sentivamo cantare. Qualunque frammento di melodia sarebbe stato perfetto, eppure pareva sempre insoddisfatto. Si fermò, ma proseguì ad ascoltare. La session pareva sul punto di finire.
Decisi di chiudere la giornata facendo il cretino, che mi viene solitamente piuttosto bene. Sulla base che proseguiva in loop mi misi a canticchiare anche io
- Non c’è Heather Parisi, non c’è Heather Parisi…
Secondo giubilio. Una risata si seppellì nuovamente. Sentii di aver portato a casa la giornata. Eppure dopo la risata James si girò e si fece poco più serio.
- Do it again, do it again
Pensai volesse ridere di nuovo. Ripresi a canticchiare la frase. Si alzò e inizio a gesticolare facendo cenno ai suoi compari di attaccare al volo un microfono che fino a quel momento era rimasto inutilizzato.
- Sing it, is good
Che? Ma davvero?
In un attimo mi ritrovai a cantare il verso su Heather Parisi dentro al microfono, le casse abbassate per evitare il rientro. James si avvicino e cantò con me. Non credo sapesse nemmeno più il significato della frase ma non gli interessava. Contava solo la musica. Andammo avanti per qualche battuta.
- Yeah, thank you man
Ma grazie a te. Appena ci fermammo ficcò la faccio sullo schermo e buttò sulla traccia di doppia voce un pitch un paio di ottave più in alto, una distorsione leggerissima e si mise a giocare con il delay. Era diventata tutta un’altra cosa.
- It works, good beginning
Sembrava contento di quello che era ovviamente un buon punto di partenza per inserire altre parole. Ero orgoglioso di essere stato utile in questa demo e la session era davvero finita. Mentre sistemavano le loro cose invitammo i ragazzi a raggiungerci più tardi in qualche club di Belleville, ma nemmeno fecero la finta di dire “sì forse veniamo”. Avevano un impegno già fissato magari con, che ne sapevamo, Pharrell. Ci salutammo.
I giorni seguenti parlammo spesso di quella giornata e della demo di James Blake alla quale avevamo contribuito. Pian piano divenne semplicemente una delle cose accadute durante quel soggiorno. Tornai in Italia dopo poco tempo e la vita continuò.
Il disco che sarebbe poi diventato Nessuno Lo Deve Sapere mi assorbì. Nei primi giorni del 2019 lessi dai social dell’uscita del nuovo album di James Blake. Alcuni singoli da quel lavoro erano già stati pubblicati ma in nessuno di essi avevo riconosciuto qualcuna delle musiche avevamo sentito quel pomeriggio. Rimandai il tutto a fine gennaio, in giorni frenetici perché di lì a poche settimane sarebbe uscito il mio, di lavoro, con conseguente tour.
Una sera mi trovavo a casa mia e trovai finalmente il tempo per dare un ascolto al nuovo album di Blake, Assume Form. Tra tutte le canzoni speravo in particolare di ritrovare quel viaggio soul metafisico nella cui demo avevo cantato quelle ridicole parole. Chissà cosa avrei ritrovato al loro posto, chissà cosa avrebbero ispirato. Non ci misi molto a trovarla: era la prima. Era addirittura la title track.
Mi sedetti con le cuffie e ascoltai. Era ancora più bella di come la ricordassi. impressionante, inarrivabile. Mi sentivo sollevare da terra. Dopo il secondo ritornello stava per arrivare il momento. Ero divorato dalla curiosità. Chissà come era diventato. Finì il verso, riprese la parte di piano, minuto 2.44 e…non c’è Heather Parisi.
James e i suoi non avevano cambiato proprio un bel niente. Il verso era rimasto lì, la voce ancora più manipolata e irriconoscibile, ma era la stessa identica. Bellissimo, sembrava provenire da uno scoiattolo meccanico, da un lillipuziano alieno. Ero rimasto io, che cantavo parole su una soubrette italoamericana nel disco di uno dei più grandi compositori mondiali contemporanei. Chiamai Enrico immediatamente.
- Cioè ma hai sentito che roba? Mi ha lasciato nel disco, è incredibile
- Sì ma davvero, ora ti devi far riempire di soldi eheh
In effetti pareva sensato. Ma da allora non l’ho mai pensata in questi termini. Ho sempre trovato semplicemente assurdo e gratificante che la mia voce abbia contribuito a questo enorme pezzo della cultura pop.
Io e Enrico raccontiamo alle persone spesso e con grande piacere di quel giorno in studio e di quel verso aggiunto casualmente nella canzone di Blake. Una semplice storia parigina di incroci casuali tra persone. Ma ogni volta succede una cosa strana. Quando la racconto io, quella storia, di primo acchito nessuno la prende per vera. Ma quando la racconta Enrico sì.
Un po’ di tempo fa eravamo in macchina e gli parlavo di questa stranezza.
- Evidentemente non devo apparire proprio il tipo di persona che potrebbe ritrovarsi per caso a fare musica con James Blake.
Ha sorriso come se capisse qualcosa che a me sfuggiva.
- Sai, l’apparenza non è niente.