Non mi sono dimenticato di voi.
È che mi sono dimenticato di me.
È davvero un periodo difficile. Alla faccia, direte voi, che analisi raffinata. È arrivato il sociologo raga.
E avete ragione, è un’esclamazione parecchio banale, in qualunque luogo del mondo ci si trovi. Però ci sono parecchie riflessioni che mi sovvengono ultimamente. Francamente pensavo, come un po’ tutti, che ci si sarebbe “abituati” a questa strana sensazione di incertezza che aleggia su tutti quanti noi. All’inizio, un anno fa, diciamolo, era anche figo. Non solo era una rivoluzione sociale interessantissima in atto, ma c’era il sentore che, dopo, tutto potesse accadere: addirittura qualcosa di bello. Tutti in fondo lo pensavano: dai che forse dopo la pandemia sarà come nel finale di uno di quel film Disney in cui il mondo è colorato, spuntano i fiori e la gente si organizza baldanzosa e felice per un futuro felice. Intendiamoci, non è che non possa andare così (anche se è improbabile).
Ma innanzitutto prima dovrebbe finire questa situazione. Quando è che finisce? Boh.
Insomma, mentre tutto sta proseguendo imperterritamente, non so voi ma io non sono riuscito a trovare una dimensione “comoda”, una specie di spazio di accettazione sereno. Al contrario, in qualche modo mi sento sempre più scomodo nei panni del co-protagonista di questo film distopico degli anni Novanta in cui ci ritroviamo. Anzi, di solito i protagonisti dei disaster movie sono i presidenti delle nazioni più qualche scienziato divorziato. Tipo Burioni più Draghi. Io casomai mi sento una comparsa, quello che per mezza scena vede Godzilla dallo specchietto del taxi e dice “Oh cazzo”.
Insomma: non ne posso proprio più.
Per dirla con gergo altrui, I’m losing my religion.
Avevo già letto tempo fa che la canzone simbolo dei REM ruba il titolo a un’espressione della Georgia del sud, che significa precisamente “sto perdendo la pazienza”, “sono stufo”.
Ho riscoperto questo dettaglio guardando la puntata a tema di quella piccola serie di Netflix sulla creazione di canzoni famose, Song Exploder. A dire il vero mi sa che è già dell’anno scorso ma mi era sfuggita totalmente.
L’ho guardata una sera ed è stata una mezz’ora davvero meravigliosa.
Ecco, vorrei parlare un secondo di questo piccolo documentario e di Losing My Religion (la canzone, non il modo di dire). Se non lo avete ancora visto e ne avete intenzione, leggete solo dopo averlo fatto perché spoilererò in libertà.
Mi ha colpito perché ha messo in luce ancora di più quanto Losing My Religion sia decisamente un piccolo barlume di assurdità, forse addirittura più miracoloso che geniale, tanto che la band stessa, mentre la descrive e parla della sua genesi, lo fa con ancora un po’ di incredulità, a distanza di 30 anni. Dura quattro minuti e mezzo, il riff principale è suonato con un mandolino, il testo è molto criptico, nel titolo c’è la parola “religion” (che è strana, pesante) e soprattutto…non ha un reale ritornello. Non ha un momento che esplode, un coro, un refrain vocale realmente determinante. È un flusso di coscienza pieno di sillabe e melodicamente molto mono direzionale.
Il risultato? Una delle canzoni più famose della storia, proveniente da un gruppo che in quel momento non era certo uno dei più famosi del mondo.
Un’esplosione, l’eruzione di un vulcano da un’isola sconosciuta.
Un pezzo d’arte sostanzialmente magico, nel senso che contiene davvero qualcosa di soprannaturale.
Molta gente non conosce i REM tanto quanto si dovrebbe, e ciononostante Losing My Religion è scolpita nella storia.
Anche solo facendosi un giro nei meandri di Spotify, balza all’occhio un dettaglio buffo. Questa immensa canzone che non ha nulla del canone “giusto” della canzone pop, ha praticamente gli stessi ascolti della canzone più ascoltata dei Beatles. Più delle più famose dei Rolling Stones o degli U2 o di Elton John.
Il grosso dei discografici oggi la boccerebbero senza appello proprio per le caratteristiche che la rendono immortale: balordi.
E pensare che i REM volevano far uscire un singolo che NON funzionasse, ma che semplicemente rappresentasse al meglio la natura di quello che stavano facendo in quel momento, che andava totalmente in contrasto con tutto ciò che stava avvenendo nell’industria musicale. Lo sottolineava lo stesso titolo di quel disco immenso che ha compiuto 30 anni giusto poche settimane fa: Out Of Time. In cui Losing My Religion è tra l’altro solo uno tra i vari capolavori.
Perseguendo la logica fieramente anti mercato, i REM non andarono nemmeno in tour dopo quell’album: non c’avevano voglia. Erano stati on the road 10 anni di fila e si erano un po’ rotti. Trovarono più utile chiudersi in studio e fare un nuovo disco. Venne fuori Automatic for the People, per dire.
Ma torniamo al documentario di Netflix. Il momento più bello è quando a Bill Berry viene sottoposta la traccia singola dei clap dentro alla canzone e lui, che non ricordava minimamente della loro esistenza, chiede: “Ma sono poi finiti nel mix finale?”. E alla risposta affermativa dell’intervistatore strabuzza gli occhi e ascolta la traccia completa: “Ci sono!”. È sorpreso come un bambino che scopre le cose la prima volta, interessato come se stesse studiando qualcosa che non gli appartiene.
Ci ho visto una grande ispirazione in questa distanza che Bill ha messo tra quella parte della sua vita e quella attuale. La sua storia è stata narrata tante volte. Durante il Monster Tour del 1995 durante un concerto a Losanna ha un mancamento da dietro la sua batteria. Dopo una pausa il concerto viene terminato ma c’è qualcosa che non va. Bill viene visitato e la diagnosi è aneurisma cerebrale. Viene operato d’urgenza e tutto va nel verso giusto.
Ma in lui si è spezzato qualcosa. Riflette e capisce che non gli va più quella vita. È nella sua band con i suoi amici, gira il mondo, suona, guadagna, è una persona benvoluta e di successo: non gli piace. Lui vuole fare il contadino a casa sua e suonare al pub quando gli va.
Il suo abbandono è sofferto ma gli altri lo accettano.
Oggi, nel 2021, Bill è ancora un contadino, suona ancora la batteria ma ecco, lo fa quando e come gli va.
Perché mi colpisce questa storia? Forse perché mi fa pensare che anche il successo (qualunque cosa significhi) è un’entità terribilmente democratica, esattamente come lo è la malattia; lo sa bene il buon vecchio Bill. Arriva semplicemente quando vuole lui, senza nessuna logica e senza motivo. A volte arriva anche se non lo vuoi, come per una canzone che avrebbe tutti i canoni sbagliati per ottenerlo.
Non credo che “successo” sia la parola che volevo evocare in questo scritto. Non mi piace il concetto di successo, non mi piace la parola e non me ne piace il senso. Eppure mi è balzato tra le dita e oramai l’ho scritta e non posso più farci niente. Oramai… è successo. (scusate)
Penso che sia un concetto che ritenga correlato al presente più nella sua accezione di “lavorare per costruire qualcosa”. È un tema cardine perché il punto fondamentale di quello che stiamo vivendo, almeno secondo me, è proprio che ci sentiamo impossibilitati a sviluppare l’idea di costruire qualcosa.
Losing My Religion per me è in questo periodo un po’ un insegnamento. In origine era solo un piccolo momento di luce spontaneo, una canzone strana di nome “sto perdendo le staffe”: non voleva andare da nessuna parte, non ne aveva pretesa, né interesse, né rappresentava illusioni.
Ho deciso di viverlo come un buon augurio: forse anche se in questo periodo non ti sembra che stai costruendo qualcosa, lo stai facendo. È che semplicemente ancora non lo sai.
Varie settimanali:
Ho visto un film veramente bellissimo, Sound Of Metal. Tematica piuttosto tosta (soprattutto per i musicisti) ma se volete guardare qualcosa di struggente e poetico la serata è fatta.
Ho anche visto un film tremendo, ma talmente orrido che merita una menzione. Dovete sapere che io ho un debole per i film brutti, di fantascienza e un po’ da Blockbuster, a volte me li guardo di notte, ma a pezzi, in varie notti, come se fossero delle serie. Alcuni poi si rivelano pure belli, perché no. Non questo. Si chiama Bright, con Will Smith. È una trama di fantascienza che idealmente ricorda un po’ Man in Black o Io, robot (sempre con Will Smith, che invece è un film stupendo). Il tutto però è fuso con il fantasy tolkeniano. Il risultato è una puttanata mondiale. Parte anche bene, da metà film in poi ogni sottotrama, ogni dialogo, ogni colpo di scena: fa tutto schifo in modo comico. E’ tutto di una inutilità e schizofrenia privi di senso. Praticamente è il The Room dei film di fantascienza. Il doppiatore di Will Smith ha anche una voce vagamente nasale da raffreddore per mezzo film. Vi giuro: va visto.
Oltre alla rinnovata fiducia nei REM è un periodo che, forse per rifiuto alla mancanza di valvole, amplificatori, sale prove ed elettricità, sto vivendo un ritorno di antiche passioni rock ‘n roll. Blues, hard rock, big muff, pentatoniche e wha wha. Tra uno sconosciuto gruppo stoner e l’altro sono ripiombato nei Deep Purple. Ragazzi ma che roba erano i Deep Purple? Mi è tornato in mente di quando cercavo di suonare la roba da In Rock da ragazzino. Facevano la figura dei fratelli secchioni dei Led Zeppelin ma riascoltati ora sono semplicemente devastanti, addirittura selvaggi. Ho trovato anche questo video RAI-nostalgia. Quando ci sarà la rivalutazione modaiola dei Deep Purple, io sarò lì. Inoltre ho scoperto che Hush, il loro primo singolo, era una cover. Nonostante avessi letto più di una loro monografia avevo rimosso questo dettaglio. Ho un netto ricordo di quando tanti anni fa vidi i Deep Purple e suonarono Hush nel bis, venne giù il palazzetto. Ad ogni modo ho cercato la versione originale di Joe South e sentite che razza di intro di chitarra acustica CLAMOROSO. 4 secondi di sbigottimento. 1969 santo cielo.
Come avrete notato, la Pasqua non c’entrava assolutamente nulla con il corrente numero, tuttavia sono molto felice di aver avuto la visione di chiamare la puntata pasquale proprio Losing My Religion. Anche se nulla è più memorabile del titolo della newsletter di Emiliano Coloranti quando morì Maradona: “La numero dieci”. Era il decimo numero. Maestro. Una Pasqua di tanti anni fa trovai degli occhiali da sole in un uovo di cioccolato. Li misi per anni e se non erro sparirono nel casino del backstage di un concerto. O furono rubati. Chi è che ruberebbe degli occhiali da sole trovati nell’uovo di Pasqua? Mah.
Sto iniziando a sistemare un po’ di pezzi nuovi e che avevo da parte, registrazioni abbozzate, cose così. È un po’ che penso che mi piacerebbe mettere mano a un po’ di materiale per qualche nuovo capitolo ma la mia asticella di entusiasmo è molto dipendente dall’atmosfera generale. La scorsa settimana ho fatto una capatina in studio, quello di Vetro Dischi, un posto agguerritissimo che è già una piccola leggenda. Ho attaccato il computer e mi sono ascoltato sulle cassone un po’ di idee che ho accumulato negli ultimi tempi. È stato bello.
Beh è tutto per ora. Mi bevo una spritz.
Spero che voi nonostante tutto teniate botta e di potervi vedere presto. Lo spero davvero.
Ciao!
Brennekedo