Ho visto Bob Dylan ogni terzo anno di ogni decennio a partire dai miei tredici anni di età.
In mezzo l’ho visto un altro paio di volte, a cadenza più anarchica. Oggi a dire il vero vorrei che siano state di più.
Per mantenere la tradizione del terzo anno (come dice anche Bob stesso, il tre è un numero molto più potente del due e non c’è un motivo, è così e basta) sono andato a sentirlo a Lucca in questo tour. Erano trascorsi dieci anni dall’ultima volta e ho provato la sensazione di andare a fare un incontro personale, familiare.
I dischi crooner che Bob ha pubblicato nel frattempo, quelli con le cover di Sinatra e simili, non li avevo granché seguiti ma la pubblicazione di Rough and Rowdy Ways aveva acceso una grande luce. Fin dall’inizio questo aveva del tutto l’aria di essere il tour più concettualmente difficile fin dalla fine degli anni settanta, con i concerti inflessibili del periodo cristiano.
Per me il concerto non è durato lo spazio di quella sera. È stata un’esperienza che mi ha impegnato praticamente tre giorni. Mi sono imposto di prepararmi, come se fosse una lezione, quasi un esame. Forse è in questo senso che i concerti di Dylan presuppongono una partecipazione attiva. Nei giorni precedenti ho ascoltato in fila tutte le canzoni in scaletta, ne ho letto tutte le traduzioni e ho cercato di assorbire le pronunce, le frasi cardine, le coordinate. Ho fatto tutto questo esclusivamente con le versioni ufficiali in studio, evitando di ascoltare in giro live dei nuovi arrangiamenti. Ho cercato di capire che tipo di messaggio stesse cercando di dare Bob con questa sequenza di pezzi. Addirittura mi sono creato un file con i testi di questa selezione e l’ho messo nel telefono per consultarlo disordinatamente come una bibbietta durante la giornata del concerto (ci sono riuscito poco niente).
Ero molto concentrato e molto pronto. Devo ammettere che il live in sé l’ho vissuto meno intensamente di quanto sperassi, ma solo per una questione di contesto e di dispersione. Più che in una piazza aperta avrei voluto sentire Dylan e i suoi in uno scantinato, rannicchiato di fianco al pianoforte a coda.
Il concerto è stato metafisico, nel senso di immateriale. Dylan fedele oramai al suo ruolo di medium con un oltre spiritico, in tutto e per tutto un fantasma. Le canzoni erano strutturate per essere esattamente questo, emanazioni ectoplasmatiche, bagliori di ricordi da passati lontani in geografie disordinate.
Ho riscoperto pezzi oscuri ma centrali in questo set come To Be Alone With You o When I Paint My Masterpiece.
Il disco nuovo è stato suonato praticamente per intero, alcuni pezzi da pochissimo composti come Key West, già completamente trasfigurati.
Il pianoforte dietro cui Bob si è nascosto tutto il tempo è un elemento centrale per trovare la giusta chiave di lettura: gli sarebbe tutto sommato inutile visto il contesto della band, ma lui lo suona come se fosse una macchina da scrivere, quasi che ai tasti corrispondano le parole che pronuncia e quasi che entrambe le cose nascano in tempo reale per assoluto dettato divino.
E il gruppo (straordinario) pareva fare la stessa cosa, con questi arrangiamenti che sembravano prendere corpo tutt’attorno a Dylan esclusivamente per quel momento.
Il grosso dei pezzi più vecchi iniziava con Bob che recitava la prima strofa suonando il pianoforte come un cercatore d’oro che rimesta la terra a mani nude, aggrappandosi ai tasti cercando di tirarsi fuori da un cespuglio di rovi.
Praticamente nessuna pausa tra le canzoni, la lettura di un unico grande poema blues della strada in cui non esiste soluzione di continuità tra un racconto e l’altro, tra un verso e l’altro. Più che un concerto un mantra, una meditazione sciamanica. Un fiume che scorre, come preannunciava Watching The River Flow in apertura.
Un fiume costeggiato da un viandante che segue la riva fino a vederlo sfociare nel mare. L’oltre, l’infinito. Per qualcuno la visione di una fine, per qualcuno la visione di un inizio.
Il concerto è cominciato così:
Che mi succede,,
non ho molto da dire
cammino avanti e indietro dalla luna
guardando il fiume che scorre
Ed è finito così:
Sento gli antichi passi
come il susseguirsi del mare
A volte mi giro e intravedo qualcuno,
a volte sono da solo.Sospeso in equilibrio
nella condizione umana
come ogni uccellino che cade,
come ogni granello di sabbia.
È tutto riassunto qui.
Volendo, Dylan poteva fermarsi già anni fa nella trasfigurazione della sua tradizione personale e sarebbe comunque stato, anche nel suo “terzo stile”, un innovatore assoluto.
Ma arrivare ad una versione così estrema, così priva di compromessi, così sfidante per il pubblico è una cosa senza pari. Cubismo puro, l’avanguardia assoluta dell’arte della canzone, forse nell’attimo prima che scompaia del tutto, dispersa da quello che verrà poi. Nel mare.
Mentre guardavo il palco con quelle tende rosso sangue, mi sono accorto che proprio al di sopra di noi nel cielo immenso di Lucca stava, gigantesca, l’Orsa Maggiore. Non sono mai stato bravo a riconoscere le costellazioni, ma Carmine mi ha detto che sì, era proprio lei.
Ho pensato che a partire da est, dalla prima a destra, quasi ogni stella che la formava era un concerto di Bob al quale avevo assistito secondo una logica geometrica del tutto sensata. Il primo concerto di Milano nel 2003, avevo 13 anni e i capelli lunghi sul collo; poco sotto quello di Como, verso ovest di nuovo i due live di Milano a chiudere il carro e poi la lunga linea verso ovest per arrivare a Lucca, l’ultima stella.
Alla fine di Every Grain of Sand, Bob ha fatto un assolo straordinario di armonica, durante il quale la gente si è alzata in massa acclamante e in sincronia perfetta. La canzone è finita, Bob si è messo per un brevissimo momento in mezzo al palco e sono riuscito in mezzo alle braccia alzate a vedere un suo cenno di ringraziamento con il volto. Poi tutto è diventato buio ed è sparito.
Come ho scritto in giro, dopo l’estate uscirà Ogni Mai Più (Vol. 2). Lo sto terminando in questi giorni e sarà un disco in parte diverso dal precedente. Più fangoso, circolare, credo (spero?) in generale più enigmatico. In questi giorni cercherò di spiegarmi un po’ meglio su Instagram.
Due settimane fa abbiamo fatto un concerto in un festival molto bello nei boschi di Venegono di fianco al castello dei comboninani. Avevamo il camerino in una celletta dei missionari.
La notte prima avevo sognato di trovarmi a casa dei miei nell’ora in cui sarei dovuto essere sul palco. Guadavo il telefono e mi domandavo perché nessuno mi aveva scritto o mi aveva cercato e mi agitavo. Poi mi veniva il dubbio che forse era tutto un sogno e decidevo di uscire di casa per scoprirlo.
Mi sarebbe piaciuto fare molti concerti in più quest’estate. Però potrei sempre immaginare di averne fatti.
Sono un po’ a corto di parole, da giorni un camion tipo betoniera si piazza sotto alle mie finestre e fa casino dal mattino presto fino alla sera. I miei pensieri somigliano al cemento che gira, sono rigidi ma al tempo stesso frenetici. Bel casino.
Ho inventato il nome per una band che mi piace molto: Vetrobandiera. Non so però che genere potrebbero fare.
Una canzone meravigliosa:
Ci vediamo,
anzi ci sentiamo,
state al fresco (non in prigione),
Brennè