Non so se sono stato fermo tre settimane o tre mesi o tre giorni. E’ il 2021, il 2020 o il 2019? E’ gennaio o luglio prossimo?
Il tempo ultimamente non ha più una forma definita. So solo che ho avuto bisogno di fare uno stop per bere alla fontanella. Poi ho aspettato, e poi ho aspettato ancora. Ho trovato interessante questo mio bisogno di NON scrivere, perché di fatto mi ha permesso di addentrarmi con una totalità esperienziale nel tema del numero di oggi.
Lavorare con lentezza
Senza fare alcuno sforzo
Chi è veloce si fa male
E finisce in ospedale
Lo cantava il cantastorie compagno di Mola di Bari, Enzo Del Re, suonando la sua sedia, nel 1974.
Io sono nato 15 anni dopo, e ci ho messo altri 15 anni per iniziare a scrivere canzoni. Poi ci ho messo altri 10 anni per comprendere che la grande differenza tra avere una canzone e non averla non è tanto iniziarla, o trovare una buona idea o un’ambientazione musicale: è finirla.
Finirla in qualche modo, giungere ad una quadra, fare punto e a capo. Non è un’evoluzione definita, un moto risolutorio e obbligato: è una decisione, ed è difficile da prendere. Prima di tirare fuori la risolutezza necessaria per quella scelta, una canzone per quanto mi riguarda non è né iniziata né finita, semplicemente non è, e potrebbe non essere mai.
Prima di decidere che una canzone è pronta (o che io sono pronto ad una canzone) ce ne vuole.
Ed è spesso una presa di posizione che tendo a rimandare.
Questo tema è direttamente dipendente da una tendenza che contraddistingue una gran parte di quello che faccio: un’attrazione calamitica, per l’appunto, verso la lentezza. Seguendo alla lettera la canzone di Enzo.
Non so voi, ma nella mia vita tra un accadimento e un altro c’è spesso da guadare un fiume di procrastinazione e io sono veramente un campione nell’assecondare questo processo.
Una parte di me pensa che, nel consumo vorticoso e ossessivo di tutto ciò che ci passa davanti agli occhi, nell’imperativo di vincere ad ogni costo per essere la versione migliore di sé stessi (che cazzata), la procrastinazione risulta quasi un gesto politico. Almeno è quello che mi dico per rendere accettabile questo mio vizio.
Come accennato, la musica è una delle principali vittime dalla mia insidiosa vena al rimando.
Mi sono immerso nella musica come mio zio mi diceva di fare nel mare quando ero bambino: partendo dai polsi e dalle caviglie, per far abituare il flusso sanguigno alla temperatura dell’acqua.
Il risultato è che la mia vita Brennekiana è piena di anni e anni di riflessioni tra un faticato approdo e il suo naturale step successivo. Un classico esempio di instabilità artistica, un po’ come Kubrick.
Credo di avere iniziato a pensare a me stesso realmente come qualcuno che poteva cantare le proprie canzoni verso la fine del liceo, ma era ancora un proposito molto generico. Ci ho messo tantissimo a decidermi.
Come ho già raccontato più volte, è stata una canzone di nome Zero a fornirmi la prova che effettivamente quella era una direzione che potevo, e volevo, percorrere.
Dopo averla scritta, per decidermi a suonarla dal vivo per la prima volta ci ho messo 5 anni. Prima di decidermi a registrarla per bene in un disco ce ne ho messi 7.
E forse il meglio fino ad ora l’ho raggiunto con una canzone di nome La Pioggia: ci ho messo 9 anni per portarla su un palco.
Le lunghe distanze, i passi fatti piano, hanno contraddistinto tutte le cose musicali che ho fatto da solo. C’è in particolare un pezzo che mi fa pensare a questa china assolutamente vergognosa della mia persona.
È una canzone che per la sua composizione mi ha preso qualcosa come 14 mesi e per la quale mi sono stati necessari quattro viaggi aerei.
Quasi ridicolo. In quella canzone però da un certo punto di vista ho cristallizzato la mia idea del lavoro lento, ed è qualcosa che mi ha fatto bene.
Era il 2009, quell’estate io e la compagnia decidemmo di fare un viaggio a Londra. Eravamo in 5, io, Della, Tino, Olly e Lele, mio cugino. Tutti loro, chi più chi meno, ruotavano attorno ad una formazione punk di nome Mothers Against Canada che esisteva da diversi anni. Occasionalmente anche io suonavo il basso con loro.
Non eravamo una gruppetto molto avvezzo alle follie notturne e roba del genere, ma sapevamo che sarebbe stata una vacanza decisiva, in una città incredibile che non avevamo mai visto.
Girammo per Londra tutta la settimana. Facevamo gli idioti continuamente. Avevamo creato questa scenetta per cui ogni volta che passavamo di fianco ad una comitiva italiana ci sussurravamo «Ehi, è morto Gerry Scotti». La gente sbiancava perché Gerry Scotti è Dio. Eravamo veramente degli imbecilli ma rido ancora se ci ripenso.
Di tanto in tanto mi salvavo sul telefono le cose interessanti che vedevo o che facevamo. Non pensavo di farne una canzone, solo sentivo avesse senso farlo.
Un giorno, penso fossimo dalle parti di Piccadilly Circus, fummo avvicinati da una ragazza italiana. Si chiamava Giulia e aveva un piercing poco sopra al labbro. Fermava i turisti e distribuiva volantini per pubblicizzare un locale. Parlammo un po’ e ci diede il suo numero. D’altronde faceva quello, la PR.
Ora, dal momento che il numero lo presi io, si creò un po’ questo tormentone secondo il quale io avrei dovuto chiamare questa Giulia uno dei giorni successivi, e magari uscirci a pazzeggiare, come se non lasciasse il suo cellulare a tutti i turisti di Londra. Una sera se non mi sbaglio le facemmo anche una delirante telefonata in viva voce dalla camera del nostro appartamento, conclusa dopo pochi secondi di idiozia in un riattacco più che meritato a noi sfigati.
L’immagine di Giulia si insinuò tra le altre a dare in qualche modo un volto agli appunti sconclusionati che stavo raccogliendo. Un po’ come se la conoscessi, anche se in effetti non la conoscevo affatto. Gira e rigira, Giulia era Londra.
Quella vacanza si concluse in modo epico. L’ultima sera scoprii che gli U2, ossia i miei 4 genitori non biologici, sarebbero stati in da house. Li avevo appena visti a Milano in un concerto che mi aveva profondamente deluso e volevo farci pace. Mi avanzavano 100 sterline e a Wembley ci si arrivava con la metro. Perché no. Nessuno degli altri era un fan quindi decisi di andare da solo, ma mi accompagnarono allo stadio e mi aiutarono a rimediare un biglietto. Ne trovai uno per il prato venduto da un loschissimo galeotto inglese che non si fidava dei miei soldi perché ero italiano e che aveva il terrore che ci vedesse la polizia.
Cose da fare nella vita: trattare con un ex carcerato cockney sul prezzo di qualcosa.
La mia adrenalina mentre infilavo il biglietto appena comprato, che poteva tranquillamente essere falso, nell’apertura automatica dello stadio di Wembley, era alle stelle. CLICK (autocit.). Quel pezzo di carta era autentico e mi aprì le porte di una serata epocale. Il concerto fu pazzesco anche se ne ricordo solo dei flash. Ad esempio che durante Ultraviolet un tizio ubriaco mi sentì cantare e si gasò tantissimo. Non faceva che ripetermi “You Rock Man!".
All’uscita una folla notturna di 100.000 persone fluiva ordinatamente verso la metro. Nessuno si sognava di superare, correre o spintonare perché in mezzo alla gente, ogni 10 metri, c’era un poliziotto inglese. A cavallo.
Quella sera ad ogni fermata della metro chiunque parlava del concerto degli U2, pareva ci fosse stata tutta Londra. Rientrato in appartamento, gli altri mi raccontarono che, proprio pochi minuti dopo la nostra transazione, l’amico inglese che mi aveva venduto il biglietto era stato arrestato.
Tornati a casa da quel viaggio, iniziai a lavorare ad una canzone che fissasse le suggestioni raccolte. O meglio, iniziai a pensarla. Un giorno tirai fuori una linea ritmica trascinata e sintetica, campionando un rullante da una canzone dei Bloc Party di nome Sunday. Di getto ci improvvisai un giro sopra. Mi buttai su un DO major 7 a cui feci deviare praticamente solo le basse. Tenendo fisso il SI alto trovai una specie di ostinato che restituiva una sensazione di sospensione e sbigottimento, ma senza tristezza.
Era molto bello. Iniziai a metterci sopra incastri sillabici dagli appunti che mi ero segnato. C’era un po’ di tutto, le macchine dalle targhe gialle, gli street food di cibo cinese, i mercatini di magliette, i tizi che cercavano di venderti la droga a Camden Town, il meridiano di Greenwich. Volevo che ci fosse quell’ovattamento tipico di quando si cammina in mezzo a tanta gente e non si vede la fine della strada. Come fuori da Wembley tra la folla e i cavalli. Arrivai ad un abbozzo e pensai di finirla il giorno dopo. Non la toccai più per un anno.
L’estate seguente decidemmo che il nostro primo viaggio a Londra era durato troppo poco. Rispondemmo quindi ad una seconda London Calling. La formazione cambiò un po’, Lele e Olly preferirono non tornare, si aggiunsero però Sam, che era (ed è ancora oggi) la ragazza di Della, e Maino. Quel nuovo viaggio mi ricollegò alcuni neuroni e in qualche modo mi fece arrivare alla fine del moto che mi si era acceso un anno prima.
Tornato a casa mi decisi a riprendere la canzone e a finirla.
Uscì uno sgraziato impasto lo-fi di 6 minuti, gonfio di suoni contorti. Lo chiamai Camden, e credo tutt’oggi che sia una delle cose migliori che mi siano mai uscite. Rappresenta, per me, proprio il lato positivo della lentezza, è il suono di tutto ciò che non è obbligato, che non ha fretta, che si assesta in una forma indefinita e sfumata. Non poteva che essere stata scritta così, per sedimentazione, confidando che trovasse la sua strada. Dal vivo l’ho sempre suonata con estrema libertà.
Il suono della bellezza dell’attesa.
E’ un tema su cui abbiamo rimuginato tutti nell’anno appena trascorso.
Lo hanno detto in tanti negli ultimi mesi: magari in questa autostrada di follia che stiamo attraversando e che ci ha piegati ad un rallentamento forzato, potremmo aver trovato degli spunti.
Per noi rallentatori è una splendida prospettiva ma non tutti la pensano così.
Qualche mese fa per un articolo che stavo realizzando ho parlato con Diego Rossetti, presidente di Confindustria Altomilanese. In quella chiacchierata, riferendosi alle strategie del Governo disse una frase folgorante, che praticamente ha messo al muro la mia intera filosofia di vita: la speranza non è una strategia.
WOW. Ecco perché lui è un presidente di Confindustria e io ho fatto bruciare il manico della caffettiera mentre dopo pranzo cercavo di far partire lo streaming dei Simpson.
Vorrei prendere Rossetti per mano e accompagnarlo con me nel fantastico mondo della procrastinazione, che presumo sia la sua idea dell’inferno.
Quella frase mi ha inchiodato, come se fosse una freccia e io un bersaglio. I risultati, nel mondo vero, non vanno di pari passo con l’attesa, e nemmeno con la speranza.
Quella roba è romanticheria da artistoidi. Questo è un mondo per gente veloce.
Però ecco, adesso ve ne dico una presa a caso dalla mia esperienza di vita degli ultimi sette giorni.
L’iscrizione all’albo dei giornalisti ti permette di avere una PEC gratuita. Ma per fare richiesta all’albo dei giornalisti, devi avere una PEC.
É solo una delle centinaia, migliaia, milioni di cose quotidiane, concrete, palpabili, che non hanno assolutamente senso nel nostro mondo. Nella prima adolescenza ho iniziato a rendermi conto che la realtà, sia nelle sue declinazioni più concrete e quotidiane che in quelle più filosofiche e astratte, non è mai organizzata nel modo più logico ma anzi spesso nel modo più illogico. Penso che tutti sviluppino una naturale barriera di protezione per sopportare tutta questa pervadente insensatezza.
Sì insomma, vostro onore, sono lento. Mi dichiaro colpevole. Ma sotto sotto credo che la causa sia che il mondo è troppo veloce.
Non ho ancora capito davvero se la lentezza sia un problema o sia un vantaggio, e soprattutto quando. Talvolta mi è stata utile. Talvolta, semplicemente è stata l’unica via per arrivare alla fine della strada piena di gente di cui non vedi la fine, quella dentro Camden Town o quella coi poliziotti a cavallo.
È male? È bene?
Me lo sono chiesto mille volte, declinando la domanda per la molteplicità di elementi che compongono una vita.
Ogni volta che inizio a pensarci però incappo sempre nella stessa risposta: ci penserò un’altra volta.
A presto amici, grazie come sempre per la vostra attenzione. Spero davvero che questo nuovo anno possa portare nuove (lente) ispirazioni.
Brennekedo