Ho parecchi problemi con il mio nome d’arte. È sbucato da solo, non lo aveva chiesto nessuno e di certo non avevo fatto alcuna analisi approfondita per tirarlo fuori.
Però in effetti mi stavo guardando attorno. Volevo fare musica da solo ma le cose non si visualizzano senza che le si possano nominare. Come facevo a creare qualcosa se non ne conoscevo il nome? Dovevo chiamarlo e poi sarei riuscito a vederlo. La storia è piena di nomi incredibili al momento giusto.
The Rolling Stones, la storia di un nome più leggendaria di sempre. Il nome che per sessant’anni avrebbe rappresentato alla perfezione la musica di quegli squinternati, totalmente improvvisato da Brian Jones al telefono con il promoter del loro primo ingaggio. Non ci avevano pensato a come chiamarsi. Colto alla sprovvista guardò sul pavimento e vide il 45 giri di Muddy Waters Rollin’ Stone/Walkin' Blues. «Ah sì ecco, ci chiamiamo The Rolling Stones», in gergo “i girovaghi”. E pensare che all’epoca il loro sound non era nemmeno così ben definito.
Nessuna immagine avrebbe potuto rappresentare meglio, per decenni, quella sintonia imperfetta ma granitica, che rimane insieme per miracolo ma non si ferma mai. Una pietra che rotola, che roba. Nessun pubblicitario laureato alla London Official Marketing and Communication Advertising Supercool School avrebbe mai potuto partorire un’idea così perfetta. Ironia della sorte, Brian non avrebbe fatto in tempo a vedere davvero fino a dove quel nome sarebbe rotolato.
Possiamo definire la mia storia altrettanto epica, inizia con me che nel 2009 studio per l’esame di archivistica.
Cercavo di convincermi che quella roba fosse interessante ma mi attendeva all’orizzonte una implacabile doppia bocciatura da due assistenti diversi. La seconda volta chiusi insultando il suddetto assistente (che era, diciamolo vah, un pezzo demmerda) e abbandonando il libro sul suo tavolo (spoiler: non l’ho mai più dato ma mi sono laureato lo stesso).
A Storia c’era questo corso e io, matricola ingenua e forse idiota, lo avevo seguito.
«Allora è questa la mia vita» dice Milhouse nella puntata dei Simpson in cui Bart compra all’asta una fabbrica dismessa e lo mette a fare il vigilante notturno. Più o meno mi sentivo così mentre studiavo per quell’esame.
Qualche aspetto dell’archivistica era anche realmente affascinante. Cioè provateci voi a ricostruire la Storia senza saper classificare i documenti. Mi pareva un po’ la base di tutto. Quello che non avevo capito è che, al posto di studiarlo io, potevo tranquillamente lasciarlo fare ad altri. Va beh, di capitolo incomprensibile in capitolo incomprensibile mi imbattei in questo tizio vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, Adolf Brenneke. Fece qualcosa di straordinariamente importante per l’evoluzione dell’archivistica europea: non lo so. Come ho detto, sono poi stato segato all’esame due volte. Però avevo letto la sua biografia, che era quella di un uomo appassionato ma, pare, anche un po’ smarrito. Veniva da una famiglia di direttori d’orchestra ed era musicista a sua volta. Amava la Storia e la classificazione ma la sua descrizione non mi trasmetteva la freddezza tipica del burocrate. Anzi, interpretavo la sua formalità come un atavico bisogno di certezze in un mondo difficile. L’ultima parte della sua vita, trascorsa in fuga dalle macerie della guerra, tra tragedie personali e collettive, somigliava un po’ ad una forma di ingiusto contrappasso. Per chi dedica la propria esistenza all’ordine, l’implacabilità del caos deve essere un’esperienza ancora più difficile da sopportare.
Va beh, quel nome mi piaceva. Lo scelsi solo temporaneamente, avrei potuto cambiarlo dopo, nel caso.
Ancora non sapevo che non si esce da un nome. Cambi nome? Cambi strada. Se cambi un nome è perché stai iniziando qualcosa di nuovo. È faticoso e deve avere un significato. Non avrei potuto cambiarlo dall’oggi al domani, solo perché mi andava. E infatti non lo feci.
Il volto austero di Adolf Brenneke sarebbe anche apparso sulla copertina del mio primo EP e nella stampa ne avrei enfatizzato anche la bellissima firma. Roba che se lo scoprono i parenti ancora in vita mi levano pure la tessera del Carrefour.
Si ha una sola occasione di trovare il proprio vero nome d’arte. A volte ho pensato di averla sbagliata.
All’inizio non avevo idea che Brenneke fosse anche il nome di una marca di munizioni piuttosto famosa tra i cacciatori di cinghiali. Lo scoprii in fretta ma la cosa per qualche motivo non mi disturbava. Anzi trovavo che desse una certa tridimensionale ambiguità e soprattutto una rivendicazione di intenti quasi politica. Un proiettile, la forma di impulsività più significativa della società moderna. In più un proiettile che sparava ad animali che ricordavano l’allegoria della mancanza di scrupoli morali de La Fattoria degli Animali. Forse ascoltare Il Teatro degli Orrori mi aveva dato alla testa.
Ma chi mi credevo d’essere, Fela Kuti? E pensare che all’epoca avevo scritto giusto un paio di pezzi e nessuno di questi aveva un significato sociale.
Le mie vaneggianti fantasie politiche alla Zack de la Rocha rimasero solo tali. Nelle canzoni che componevo forse in modo indiretto emergeva un mio punto di vista disincantato sulla società, ma non c’era nulla di esplicitamente impegnato.
Avrei potuto essere più previdente nello scegliere un nome che gli algoritmi della rete associano immediatamente ad animali morti. Era il 2009, Google esisteva. Però oh, i Joy Division si chiamavano come gli spazi dei lager nazisti adibiti al sollazzo erotico dei soldati tedeschi… ma mica erano nazisti! L’eterna dannazione degli algoritmi: o qualcosa è bianco o qualcosa è nero. Tempi duri per l’ironia, tempi duri per le sfumature.
I Linkin Park, nell’anno 2000, si erano brevemente chiamati Lincoln Park, il nome di parchi più diffuso d’America, ma avevano scelto di cambiare nome alla scoperta che il dominio del sito Internet non era disponibile. Dannazione, ecco perché io non faccio soldi e gli altri sì: sempre a sottovalutare il fottuto marketing.
Attorno al 2012 esplode Instagram, esplodono gli hashtag (non in senso letterale: magari) ad amplificare questo mio piccolo errore di valutazione. Ormai era diventato impossibile slegare il nome Brenneke dall’esistenza di quei benedetti proiettili.
Vi racconto questa. Qualche anno fa sono ospite in una piccola web radio locale. Suono un mini set, racconto di me, ci divertiamo. A cena, parlando del più e del meno, salta fuori che loro all’inizio avevano avuto qualche incertezza sull’invitarmi davvero o no. Perché? Perché pensavano fossi un fascio. Sono rasato, mi vesto di scuro, ho un nome tedesco che ad una prima indagine sul web rimanda ad una marca di proiettili. Non solo non avevo raccolto nessun testimone da Pierpaolo Capovilla ma c’era pure chi pensava che ne avessi raccolto uno dai Legittima Offesa.
Nonostante per un po’ pensassi di aver fatto un errore giga-comico, non ho mai smesso di pensare che Brenneke fosse un bel nome e mi ci sono affezionato. Fortunatamente negli anni anche tante altre cose me l’hanno fatto apprezzare.
Prima di tutto è il nome di un agente della CIA che sbucò fuori durante le indagini sulla P2. I misteri d’Italia sono sempre una buona miccia per la creatività e a suo modo è un buon auspicio, in fondo anche “U2” era il nome di un aereo spia americano.
Pochi anni fa poi mi sono voluto documentare su questa fantomatica azienda produttrice di munizioni e ho scoperto una cosa che ha gettato un valore tutto nuovo sul nome che mi sono scelto. Wilhelm Brenneke, l’inventore e fondatore dell’azienda, visse esattamente negli stessi anni dell’altro Brenneke, quello da cui mi ero ispirato io. I due nacquero e morirono a una manciata di anni di distanza, in Germania. Anzi, erano nati pure entrambi nella Bassa Sassonia, tanto da far sospettare qualche forma di parentela.
Stessa nazione, stessa epoca, stesso nome e ciascuno era in qualche modo la nemesi dell’altro. Wilhelm, il proiettile, la velocità e l’impulso, Adolf, l’archivio, la lentezza, l’attesa. Questo mi ha dato nuovi impulsi.
Brenneke come una versione sassone ottocentesca dello Yin-Yang? Boom, questo sì che funziona. Una imprevista dualità, un bilanciere dell’animo umano.
Anche per questo motivo, dopo alcuni anni di perplessità, ho fatto abbastanza pace con questo nome, ho instaurato un equilibrio. Contiene un’armonia che mi riconduce in qualche luogo che riconosco. Apparentemente non rimanda a nulla se ne ignori la genesi, non è morbido né comune, ma ho sempre trovato che contenga qualcosa di rassicurante. Di autorevole ma anche amichevole, ecco.
Alla fin fine un nome è solo un nome. Voglio pensare che il suo significato lo dia la strada che quel nome percorre e non una specie di predestinazione divina. Il nome Brenneke ricorda a me stesso che devo essere io ad associarne dei valori e non il contrario. In questo senso è uno sprone.
E poi, a conti fatti, parte dei miei primi intenti politici sono stati mantenuti.
Ho un nome che se ne frega degli algoritmi, anche a costo di venirne danneggiato e in fondo mi piace: ditemi oggi se c’è qualcosa di più politico di questo.