Sì sì lo so scusate, sempre le solite scuse abbozzate e balbettanti. E intanto settimane e settimane di assenza e attese. Ma quando cazzo lavori Brenneke? Manco fosse una newsletter statale, cioè.
Purtroppo è proprio questo il trend delle ragnatele di quest’anno, circa una al mese. Vabbè oh, poteva anche andare peggio. Potevo non averla proprio una newsletter. Potevo non fare proprio musica, né scrivere, né portare avanti velleità espressive di alcun tipo. Che sogno.
In questo momento di trovo dal fido kebabbaro Al Vascello ad attendere il mio panino “brianzolo” con cotoletta e mozzarella. La mia passione per questo decisivo capolavoro della gastronomia nacque quando chiesi un brianzolo con l’aggiunta di fontina. Non avevano più la fontina e mi proposero la mozzarella, che accettai un po’ a malincuore. E invece ne emerse un inaspettato spettacolo culinario. Da allora quando vengo qui lo chiedo sempre così. A volte è dagli errori che nascono le tradizioni.
Un po’ di giorni fa guardavo un documentario su Bowie beccato un po’ a caso su Netflix (Bowie: The Man Who Changed The World, che mi è parso un po’ troppo didascalico ma carino).
Il doc iniziava con una parte di questa intervista televisiva del 1976.
L’intervista è molto affascinante, con il nostro a tratti addirittura un po’ respingente, quasi stronzo. In tutti i suoi periodi Bowie sembra sempre uno in grado di osservarsi per tutto il tempo dal di fuori.
La cosa interessante è che non si capisce se stia recitando oppure no. Non è ben chiaro quanto di quello che dice sia esattamente ciò che pensa con spontaneità o quanto stia lasciando parlare il personaggio che a tavolino ha scelto di interpretare in quel periodo.
Mentre lo osservavo ho avuto un pensiero stupido che mi ritrovo ad avere di tanto in tanto. Il giorno prima avevo fatto una riunione di lavoro normalissima: come sarebbe uno come Bowie in quella riunione?
La riunione era una di quelle in cui si ha l’impressione che tutti i partecipanti siano catapultati lì per caso, in cui per la maggior parte del tempo si ha la percezione, anzi la consapevolezza, che i problemi che si sta cercando insieme di risolvere siano semplicemente irrisolvibili.
La costante difficoltà del grosso degli ambienti lavorativi è causata da una dimensione strutturale; le imprese (in senso lato) sono innanzitutto comunità che devono fare i conti con dei limiti.
Esistono contesti in cui semplicemente i problemi sono troppo grandi, troppo radicati, per essere risolti davvero, anche con tutte le riunioni del mondo. Possono essere arginati, o meglio ancora gestiti (la soluzione tendenzialmente più sana). Ma in fondo in fondo lo sanno tutti, nella stanza, che il colosso alla base è probabilmente quella legge che non può essere cambiata, quel CEO che non sa proprio fare il capo, quel ministero che prende decisioni incomprensibili, il carattere di quello specifico collega, eccetera. Puoi tamponare il problema ma per quanto il mondo possa farti apprezzare l’idea di vantare delle raffinate strategie di problem solving, lo sai, lo senti, dipende tutto da radici profonde che nessuno può toccare.
Il fatto è che non puoi dirlo con chiarezza, perché se tu lo facessi creeresti una spirale di disfattismo pericolosissima. E dall’esterno non sembrerebbe né che tu voglia risolvere i problemi né tantomeno individuarli, bensì crearli.
È proprio qui il punto.
Come sarebbe Bowie, quello lì dell’intervista del ’76, stessa camicia, stessi capelli rossi gellati e sguardo ghiacciato, se fosse un tuo collega in un comune contesto pieno di falle logistiche, organizzative, comunicative? Cosa avrebbe fatto? O detto?
La risposta che mi sono dato è che probabilmente, dopo un’analisi nemmeno tanto lunga, avrebbe detto «fuck» e se ne sarebbe andato non solo dalla riunione ma dal lavoro. Non tanto perché si sarebbe innervosito quanto perché, individuata l’impossibilità di agire in profondità, non avrebbe concepito una gestione illogica. Credo che sia quello che fanno i geni. I geni non perdono tempo, hanno un istinto per individuare il rapporto costi/benefici più conveniente.
Ma nella nostro vivere comune pensare in modo così estremo comporta un enorme rischio sociale.
Non puoi decidere di cambiare un tribunale se emette un verdetto che tu sai essere sbagliato (magari perché sei il condannato). Non puoi decidere di cambiare una legge o un organigramma. Ti è concesso cercare di modificare, ma raramente ti è concesso di creare da zero.
Ragion per cui, se sei inserito in un sistema di scelte che alla lunga senti essere tutte sbagliate esiste un’unica opzione per fare la scelta che reputi giusta: mandare tutto a fanculo.
È esattamente quello che credo farebbe Bowie, Picasso, John Lennon o Kubrick se la vita li avesse portati, che ne so, ad aver vinto un concorso alla biblioteca comunale di Figino Serenza. Dopo una rapida comprensione delle difficoltà strutturali tipiche di un ambiente simile direbbero “Beh, arrivederci a tutti”.
Andando magari a confrontarsi poi con situazioni ai nostri occhi molto più rischiose: perdere il lavoro, perdere gli affetti, perdere stabilità economica, cose del genere. Ma forse è proprio questo che li renderebbe geni.
Un genio, copio spudoratamente da Wikipedia, deriva dal latino genius, sostantivo derivato dal verbo geno (generare, creare) e significa dunque forza naturale produttrice.
Quindi un genio è chi segue la propria forza produttrice in un impeto più forte dei contesti in cui è inserito. Da un certo punto di vista la genialità non è una condizione, è una scelta, anzi un insieme di scelte consapevoli e radicali, che implicano però l’assumersi un rischio non da poco, ossia quello di apparire socialmente riprovevoli. Se va male, con conseguenze irrisolvibili.
Ho così formulato un piccolo assioma.
Essere un genio è inversamente proporzionale all’incapacità di un individuo di rifiutare le situazioni che non gli piacciono.
Un po’ contorto ma efficace. Avrei potuto anche formularlo al contrario, in versione direttamente proporzionale. Ma sento che così come l’ho scritto parla più di me, o di noi.
Avete presente tutte quelle persone al centro di storie mirabolanti che iniziano con «No quello è fuori di testa, va che…», «Lascia stare, ti racconto questa», «Ci ho lavorato anni fa e non hai idea, pensa che…». Sono sicuro che conoscete almeno una serie di questi personaggi, solitamente al centro di narrazioni impensabili dalle quali emergono come elementi del tutto poco raccomandabili.
Chissà, io non escluderei futuri documentari su di loro.
Divertente il colloquio Celentano - Bowie in una trasmissione del molleggiato anni 90. A Bowie il nostro doveva proprio stare sul....