Una delle cose che odio di più della mia generazione è il nostro vizio di citare cartoni animati e fumetti per illustrare sfumature della realtà. Non lo facciamo con naturalezza, ma ancora con quella spocchia di chi ci tiene assolutamente ad elevare l’incapacità di accettare la vita adulta a cultura. C’è sempre quel messaggio di paternalismo al contrario: sono evoluto dunque cito i cartoni, hai problemi? Ma chi ti ha detto niente, idiota. Cita quello che ti pare ma non farlo pesare.
Detto questo: c’è quella puntata dei Griffin in cui dopo un’apocalisse nucleare scatenata dal millennium bug Peter fonda la Nuova Quahog.
Vista l’età anagrafica di alcuni di quelli che leggono questa newsletter mi sento di specificare cosa sia il millennium bug. La sola idea di dover fare questa cosa mi stranisce, ma così è la vita compagni e compagne. Perciò per tutti coloro che erano troppo piccoli per ricordarlo o che non erano nati, il millennium bug era la paura (lo era all’epoca: oggi credo che la definiremmo semplicemente leggenda metropolitana) che la tecnologia mondiale potesse impazzire collettivamente nel capodanno a chiusura del 1999. La teoria voleva che le intelligenze artificiali che regolavano le automazioni di tutto il mondo, da quelle degli aerei a quelle dei computer fissi, non avrebbero retto il cambio data da quella del Novecento a quella del Duemila e che si sarebbero sfasati causando disastri. Era ovviamente una puttanata astronomica, ma quando avevo 10 anni andava forte su Studio Aperto.
Ad ogni modo, questa puntata dei Griffin partiva dal presupposto che il millennium bug si verificasse. Dopo l’annientamento di parte dell’umanità, dicevamo, Peter rifonda la sua vecchia città. Ma la governa a modo suo, ossia completamente delirante. Ad un certo punto in questa città arriva un tizio da fuori che vorrebbe unirsi alla comunità. Dice: «Nella vecchia vita ero un dottore», al che Peter risponde: «Ah fantastico, chissà se ti capita quello» e gli fa sorteggiare la professione da un cappello. Il tizio becca “scemo del villaggio” e se ne va. Gli amici di Peter gli fanno notare che forse avrebbe potuto fare il dottore e lui risponde loro: «Queste sono le regole della Nuova Quahog: qui tutti possono fare il lavoro di tutti».
Nel contesto della puntata la frase suona come assurda ma trovo che oggi, a distanza di 20 anni, suoni come un paradigma della società. Mi è venuta in mente quella scena mentre riflettevo sulla relativizzazione di qualsiasi cosa con le atrocità della guerra che ci passano vicine e lontane; a volte lasciamo che ci attraversino senza lasciare traccia e a volte non ci mollano manco nei sogni. Mi si è scatenato come un atavico bisogno di qualcosa o qualcuno di autorevole al quale appigliarmi. Quel tipo di autorevolezza conferito da una professionalità riconosciuta o conclamata. È uno di quei periodi del mondo in cui un curriculum che conferisce un credito intellettuale, artistico o scientifico in qualche modo può fare da collante per contrastare la barbarie che sembra accerchiare tutto ciò in cui crediamo.
Ma nel mondo odierno, come nella Nuova Quahog di Peter Griffin “tutti possono fare il lavoro di tutti”. Vestirsi con ogni abito, assumere qualsiasi forma, cammuffare qualsiasi voce e addirittura qualsiasi ideale, qualsiasi etica e qualsiasi morale. E non può che scatenarsi un dilemma sulla fiducia. Ci ragiono un po’ in flusso di coscienza proprio qui, proprio ora.
Non intendo dire in maniera generica che tutti sono inadeguati nei propri ruoli. Ma tutti potrebbero benissimo fingere di essere adeguati nei propri ruoli. Quanto siamo in grado di sapere se qualcuno ci sta dicendo la verità? La manipolazione, uno dei temi che mi ossessiona di più: la capacità di manipolare come virtù implicita della nostra condizione di individui. Quanti esperti di qualsiasi cosa ci annegano la percezione con i loro punti di vista? Esperti di medicina, di virologia, di economia, di politica, di storia, di tecniche militari, di cucina, di disarmo nucleare, di Guerra Fredda, di pedagogia. Poi salta fuori che quel medico che nel talk show ci è sembrato così competente è in realtà un negazionista del sistema sanguigno, quel giornalista è un negazionista della lingua scritta, quello storico è un negazionista del tempo. Sembrano tutti i negazionisti di quello che sono.
Beh, se perfino Ratzinger ad una certa ha detto “Dio? E chi ci crede più: me la squaglio”. O perlomeno è la mia interpretazione delle sue dimissioni.
Poi c’è il problema che tutti credono di poter fare tutto. Perché Gramellini scrive una posta del cuore sul Corriere? Ma esiste davvero qualcuno che vuole consigli sull’amore da Gramellini? Io ho un nome per questa tendenza: il veltronismo. Come alcuni di voi avranno notato, Veltroni è un politico, uno scrittore, un giornalista, un saggista, uno sceneggiatore, un regista. Penso che gli darò da produrre il mio prossimo disco. Non c’è nulla che Veltroni pensi di non saper fare: l’emblema definitivo dell’autoconferimento alla licenza di qualsiasi cosa.
Ma è così. Nella Nuova Quahog ogni identità è concessa, ognuno può ambire ad incarnare qualunque ruolo, ad essere chiunque, a farsi portavoce di ogni linea. Anche quando ci capisce poco, anzi non ne sa un bel niente, quando confonde la passione con l’approfondimento. Anche quando è un asino (nel senso dell’animale) e dal cappello becca la professione di dentista (come mostra in un altro passaggio la stessa scena dei Griffin di cui sopra).
Accettiamo questa incongruenza di fondo della nostra società perché la confondiamo con la mobilità delle classi sociali (che invece esistono ancora e sono lì granitiche nella loro piramidalità) e questo rappresenta la nostra massima idea di democrazia. Il contadino che può diventare principe insomma. Lo schiavo che una volta liberato può finalmente diventare Veltroni. È una cosa bella? Certo.
Ma l’impressione è che la democrazia sia diventata la convinzione che ognuno possa diventare principe per auto conferimento. Anzi: per auto acclamazione. È sufficiente questo lasciapassare per farsi dare una corona? Nella mia memoria torna Prova a Prendermi, un film che racconta la nostra struttura sociale meglio di molti trattati di economia, antropologia o sociologia. Un uomo che passa anni a fingere di essere quello che non è passando di truffa in truffa per il solo gusto di farlo e come viene punito? Viene assunto dal governo americano.
Ma non divaghiamo troppo. Mentre infuria il dramma, sento la mancanza di una sorta di fondamenta del pensiero. Vorrei fidarmi del professore che ha scritto quel bell’articolo sull’Internazionale…ma in fondo chi è? E se fosse un cialtrone? Mi sta arricchendo o mi sta compiacendo?
Più che mai in questi tempi abbiamo bisogno di contare sulla presenza di persone (o meglio presenze) che riteniamo irraggiungibili. Di maestri. Che ci diano l’impressione di sapere innatamente qualche cosa che noi non sappiamo e che lo facciano da una nuvola altissima, con qualche perla ai porci sapientemente distribuita. Invece vige la tendenza opposta. Tutti coloro che volenti o nolenti sono elevati su un piedistallo (o un marciapiede, via) devono dimostrare, quasi per giustificarsi, di essere in fondo uguali a tutti noi. Eccomi, sono un umano autorevole… e sono anche accessibile. Ma chi te l’ha chiesto? Un Papa, per rimanere sulla scia di prima, deve solo apparire e svanire e nel mezzo dirci qualcosa di vero. Non deve passare a salutare dei suoi amici al negozio di dischi.
Non voglio sapere che quelli sulle cui spalle sta il futuro della deterrenza nucleare fanno gli errori di ortografia su Facebook. Che il grande giornalista con una onorata carriera di inviato di guerra non sa usare gli spazi della punteggiatura.
Perché noi non possiamo affrontare questo mondo imbizzarrito nella consapevolezza, conscia e inconscia, che le persone che devono aiutarci a comprenderne la complessità sono come noi; la conclusione logica è che allora ne sappiano quanto noi: un bel niente.
In qualche modo applico questo ragionamento anche all’arte e alla musica. Lennon era “accessibile” o leggeva la realtà da un piano diverso rispetto al nostro quando scriveva Imagine, che più che un inno alla pace è un inno all’anarchia? E quando Dylan cantava Masters Of War e A Hard Rain’s A‐Gonna Fall somigliava ad un amico di quartiere o ad uno spirito ultraterreno? Oggi pare che le grandi menti sentano di dover anche essere i vicini di casa di tutti.
Magari sbaglio e come sempre mitizzo un’epoca che non ho vissuto. Forse anche prima grandi uomini e donne volevano apparire più accessibili di quanto io stesso non ami pensare. Non lo so, non ero nato.
A proposito, alla luce di quanto detto anche la fissa di citare i cartoni animati, i supereroi e i personaggi diventa più chiara. Ci rassicurano perché loro, pur nelle loro sfumature, sono in effetti realmente irraggiungibili, non possono deluderci, né confonderci, né manipolarci: non esistono.