La Guerra in TV
Nel 1953 Alan Lomax si catapultò in Italia per studiare le nostre tradizioni musicali. Lomax era un etnomusicologo texano ossessionato dalla musica folk, talmente tanto che ad una certa si era messo a classificare con l’attenzione del collezionista di farfalle tutti gli esempi di tradizione musicale orale esistenti in circolazione. Iniziò insieme al padre, antropologo a sua volta, con gli Stati Uniti. Le sue registrazioni di quello che restava del blues rurale dei primi del novecento o del country dal mondo del far west furono determinanti per la musica del futuro: tutti i musicisti della tradizione anglosassone che hanno iniziato nei primi anni 50, quelli che poi sono diventati celebri e hanno creato l’universo rock, si sono formati sulle registrazioni di Lomax, in circolazione sui vinili o in radio. Giusto per capirci, Brian Eno disse una volta: «Senza Alan Lomax forse non ci sarebbe stata l’esplosione del blues e neppure il movimento del rhythm and blues, i Beatles, i Rolling Stones e i Velvet Underground».
Ad una certa gli USA non gli bastavano più: impostò lo stesso lavoro, con un registratore di una pesantezza inaudita, in vari paesi del mondo. Salvare gli ultimi carboni ardenti del fuoco della tradizione orale dal furore della modernità, questo era il suo obbiettivo.
Giunse in Italia, dicevamo, all’inizio degli anni 50. Da noi trascorse 2 anni, durante i quali registrò tutto quello che riusciva a trovare. I vecchi poemi musicati lombardi del mondo contadino, le tarante esorcizzanti del Salento, le serenate abruzzesi con armonizzazioni albanesi, i suoni polifonici della Sardegna, i canti delle tonnare siciliane e così via. Registrava tutto direttamente dalle fonti: gli anziani, le mondine, i pescatori, i gruppetti vocali che si esibivano nelle piazze dei paesini, gli esperti di dialetti. In quell’Italia la tradizione musicale antica non era nascosta in un sottobosco difficile da trovare: quel patrimonio non era ancora qualcosa da salvaguardare, ma era parte della vita di tutti.
Lomax era accompagnato nel suo viaggio dall’etnomusicologo Diego Carpitella, a sua volta collaboratore del grande Ernesto De Martino.
Da quell’esperienza trasse un libro dal titolo più che esaustivo: «L’anno più felice della mia vita. Un viaggio in Italia».
Sosteneva che la varietà della tradizione musicale che aveva trovato in Italia non l’aveva mai incontrata in nessuna delle nazioni che aveva visitato.
Non ammorberò sull’ovvio valore di quelle ore di registrazioni, che sono state negli anni pubblicate e ripubblicate e oggi si trovano senza grandi difficoltà in raccolte di nome Italian Treasury (anche se spesso senza note e cenni filologici).
Quanto conta davvero è ciò che è avvenuto sul finire del suo biennio italiano. Io ho fatto ben poco per ricostruire quanto scrivo: l’ho semplicemente letto un po’ di tempo fa in un bell’articolo scritto da Bruno Giurato su Linkiesta nel 2016.
Se ho ben capito lo stesso Lomax lo racconta alla fine del libro, ma non ho ancora avuto modo di appurarlo perché è fuori produzione da un po’ di anni. Andò così. Il nostro texano, come detto, era entusiasta della musica italiana che aveva raccolto. Il suo obbiettivo principale era preservarla anche e soprattutto come tradizione viva, tra le persone. Al che andò dritto dritto dall’unico organo che in Italia avrebbe potuto salvare questo patrimonio: la RAI. Ebbe modo di conferire direttamente con qualche dirigente e propose l’intero suo archivio, a patto di dare ad esso copertura radiofonica. Negli USA questo avveniva già: il blues rurale e il vecchio folk e country (anche quello registrato da Lomax) veniva regolarmente trasmesso dalle stazioni settoriali e non, il motivo per cui ai giorni nostri è ancora ben nota gente come Robert Johnson e Blind Lemon Jefferson.
Dalla RAI gli risero in faccia: la tradizione era roba del passato, roba da estirpare. Definirono di fronte ad un Lomax esterrefatto l’antico folk italiano “musica da primitivi” e aggiunsero altri epiteti simpatici. Era musica che la RAI non voleva associare alla costruzione di modernità di un paese che era uscito da pochi anni dalla guerra e da vent’anni di dittatura. «L’Italia musicale che vogliamo - risposero - è nel nostro asso nella manica: il festival di Sanremo».
L’Italia rianimata dal piano Marshall, unita a doppio filo all’egemonia anglosassone, piena di vergogna per l’era mussoliniana e per questo del tutto succube ad ogni imposizione politica, sociale ed economica americana, voleva usare il festival di Sanremo per creare una nuova tradizione musicale italiana che fosse costruita esclusivamente sui modelli americani della Tin Pan Alley, la “fabbrica di canzoni“ newyorkese di quegli anni. Molta della nostra musica del sud, poi, era troppo imparentata con la cultura africana e questo riportava a galla ricordi colonialisti umilianti, che dovevano assolutamente essere tranciati via.
La “canzone italiana” che conosciamo nacque dunque così, in un assassinio culturale, nella cancellazione deliberata della maggior parte delle tracce della tradizione per far entrare una posticcia americanità che avrebbe distrutto la nostra anima musicale. Anche Lomax, vero, veniva dagli USA, ma i suoi suggerimenti non venivano presi per quelli di un americano di cui fidarsi: tipo stranissimo, eccentrico e poco accomodante, dal carattere spigoloso e burbero, perfino negli USA era malvisto dalla CIA, che lo considerava ovviamente un comunista (cosa che forse era).
In quasi settant’anni la RAI ha portato egregiamente a termine il compito che si era prefissata: la canzone sanremese ha soppiantato il patrimonio musicale popolare, distruggendolo pezzo dopo pezzo. Della nostra tradizione millenaria non è rimasto praticamente nulla; la musica “antica” non ha avuto nessuna evoluzione che non somigli agli animali rari delle riserve. Qualcuno ci ha provato certo, a rimaneggiare il patrimonio (non serve nemmeno ricordare De Andrè e i suoi approdi mediterranei) ma sono eccezioni. E il tutto ha creato un corto circuito generale. In tutti questi anni musicisti italiani di ogni generazione che rifuggono Sanremo, hanno cercato istintivamente la loro identità andando a scomodare il blues americano, quando invece sarebbe stato sufficiente fare una passeggiata nei pressi della tonnara di Marzamemi.
Sanremo è insomma l’esempio più fulgido di quello che faceva perdere il sonno a Pasolini, ossia l’uccisione delle realtà particolari in un neo fascismo consumistico imposto dall’alto, nell’asservimento all’America post conflitto mondiale. È l’assassino del nostro patrimonio culturale collettivo musicale, qualcosa che in altri paesi ha modellato l’emotività popolare del Novecento.
È pure divertente da vedere, commentare, valutare perché no.
Però ecco, ricordiamo mentre siamo di fronte alle nostre TV accese sul festival di Sanremo di stare guardando, sostanzialmente, quello che rimane della Seconda Guerra Mondiale.