La giacca verde
L’altro giorno stavo facendo lezione di chitarra a un bambino, nella scuola di musica dove insegno.
Il pomeriggio iniziava a farsi tardo e il buio calava su Milano. Mentre delle finestre filtravano gli ultimi freddi sprazzi della giornata, dentro l’aula dovevo assicurarmi di mantenere alta l’attenzione del mio giovane allievo di sette anni, perché per lui c’era ancora un po’ di lezione da fare. Un ciclo inversamente proporzionale tra me e il giorno che finiva.
Stavo spiegando a Lorenzo il valore delle note vuote sul pentagramma, più che una regola il concetto astrattamente fondativo di tutto ciò che la musica sia. Quando si comprende che le note piene durano un teorico uno e che quelle vuote durano un teorico due si spalanca un mondo, il mondo delle alternative. Note lunghe, note corte: esiste forse qualcosa in più da comprendere, da interiorizzare, da accettare? La musica non è altro che questo.
L’aula della scuola è uno spazio che guarda verso una corte interna. Dalla parte opposta c’è una sola grande stanza a separare dal marciapiede e la strada; lascio sempre la porta aperta tra le due aule per avere un occhio sull’esterno. Lo spazio in cui stiamo è un luogo protetto ma le tracce ovattate di quello che avviene fuori cercano sempre di distrarci. Persone che passano e sostano all’ingresso, clacson, rumori di saracinesche, bagliori dei fari che riflettono sui vetri.
Seduti frontalmente io e Lorenzo guardavamo insieme il pentagramma e suonavamo la melodia scritta sul libro. Lui suonava la sua chitarra, io quel pomeriggio usavo una classica della scuola. L’avevo già suonava altre volte ma non mi ero mai accorto di quanto fosse bella quella chitarra.
Il mio allievo non aveva nessun problema a capire il concetto di tempo, né la durata delle note. A volte sono nozioni da costruire da zero, idee da far nascere e far attecchire pian piano. Alcuni invece, semplicemente, sanno già in modo innato qualcosa a cui devono dare un nome.
Suonava bene la sequenza di note, arrivava fino alla fine e ogni volta gli chiedevo di riprovare. Di fatto entrambi eravamo totalmente concentrati in fissità. Come se osservassimo la melodia.
Quando ho rialzato lo sguardo c’era una persona nella stanza.
In piedi, esattamente nell’angolo opposto rispetto a dove era seduto il mio allievo. Ho avuto un fremito di sbigottimento e confusione. Chi era? Cosa ci faceva lì in piedi? Perché non l’avevo sentito entrare? Queste domande mi hanno affollato la mente per un lasso di tempo che posso quantificare in qualche decimo di secondo. Non avevo addosso gli occhiali da vista, quelli con i quali vedo bene da lontano, ma la visione era presto spiegabile stringendo gli occhi in una messa a fuoco. Era successo che avevo appeso la mia giacca verde militare, quasi marrone, sull’attaccapanni senza accorgermi che una manica era rimasta appoggiata su un tavolino, come se il braccio fosse rialzato molto realisticamente. Entrando, Lorenzo aveva appeso la sua, di giacca, e il suo cappello, poco più in basso in una posa che li faceva assomigliare a calzoni lunghi. Nella sua interezza, la sagoma senza volto era non solo assolutamente umana, ma anche molto espressiva. A metà tra Corto Maltese e Babadook. Pareva che quel braccio volesse alzarsi ancora un po’, per fare una domanda, presentarsi, spiegarci la sua presenza. Beh tutto risolto, insomma. Era durato davvero il tempo di un’occhiata ma quanto bastava, ovviamente, per incuriosire il mio studente, che alla vista del mio interesse non aveva potuto fare a meno di voltare la testa per osservare cosa ci fosse di tanto interessante là dietro.
La concentrazione oramai era stata interrotta. Poco male, dopo qualche minuto a suonare con continuità non mi sono opposto al diversivo.
«Non trovi buffo? - gli ho detto spiegandogli cosa mi passasse per la mente - con quei vestiti l’appendiabiti sembra un po’ una persona». Lui ha dato un’occhiata un po’ più approfondita, in un misto di curiosità e distacco. «Ah sì…è vero». Credo sorridesse ma non lo vedevo bene perché entrambi avevamo la mascherina.
«Mentre stavi suonando - ho proseguito - l’ho visto e mi ha fatto quasi un po’ paura».
Lui ha fatto una pausa. Si è fatto serenissimo, mi ha guardato e con un tono di voce che conteneva una saggezza di mille anni ha detto: «Le cose a volte fanno paura».