Questa settimana purtroppo non ho avuto molto tempo per organizzare un lungo pensiero coerente ma mi dispiaceva non inviare la niuslette’, così ho deciso di fare un numero di Ragnatele facile facile composto di sole varie settimanali un po’ più allargate del solito, che ho chiamato Jumpin' Jack Flashes.
Intanto, ho scoperto che scrivo molto facilmente questa cosa mentre lavo i piatti. O meglio, non la scrivo, in effetti la penso. Interi periodi, temi, passaggi. Solo che per dieci minuti li accumulo lì senza poterli fissare davvero su un supporto. Il che rende urgente l’invenzione di un aggeggio che traduca istantaneamente in scrittura i pensieri. Qualcuno ci sta pensando? Ovviamente sì.
Ma sto divagando. Che poi è tendenzialmente quello che mi viene meglio in genere.
Nella vita divago. Ma di vago non c’è proprio niente.
Ad ogni modo, ecco un po’ di cosette sparse che ho raccolto da questo ultimo periodo, e noto con piacere che sono soprattutto diversi focus musicali che talvolta sconfinano nel nerdismo. Perché van bene Muccioli e Malinowski ma qui stiamo portando avanti UN’INDUSTRIA signori.
Dunque.
Ultimamente ho visto diverse nuove puntate di 33 giri - Italian Masters, la serie di Sky Arte sulla lavorazione dei dischi italiani. È già arrivata alla quarta stagione, è molto bella ed è di fatto una copia carbone della straordinaria Classic Albums, collana di documentari sui dischi che hanno fatto la storia del rock (la cui prima stagione risale al 1997) su cui mi sono letteralmente formato in giovane età. Mario Draghi aveva le lezioni di Federico Caffè, io avevo i DVD di Classic Albums. A ognuno il suo oh.
Se siete appassionati di musica in generale e non avete ancora visto 33 giri, la consiglio davvero. Se non avete Sky non cercatela illegalmente in streaming, mi raccomando.
L’idea (di copiare Classic Albums) è stata se ho ben capito di Stefano Senardi, che infatti appare regolarmente. Il mattatore principale però è Maurizio Biancani, che se la ride amabilmente davanti al mixer con gli artisti in quasi ogni episodio. Per tutto il tempo non fa che annuire con gli interlocutori chiudendo le frasi in ritardo nel tentativo di fingere di sapere di cosa parlano. «Mick Taylor… il chitarrista dei Rolling Stones», «…Rolling Stones, certo». «London Calling…il disco dei Clash», «…Clash, come no». È sicuramente il re onorario dei boomer ma è un fonico storico e una presenza simpatica e piena di energia positiva. Oltre a fare anche un po’ ridere perché assomiglia vagamente a Ricky Gianco. Ed è subito aria di censura RAI.
Le prime 3 stagioni le avevo già viste quasi al completo. la quarta inizia con la puntata che racconta Su e giù da un palco di Ligabue, che ho guardato con discreto interesse. Non ho capito perché la scelta di raccontare un disco dal vivo in una serie sulla lavorazione in studio, però c’erano molte cose interessanti. Mi ha colpito l’idea che nel 1997 Lucianone e i suoi riempissero gli stadi stando sul palco in cinque e BASTA. Niente basi, niente metronomi, niente tastiere. Armonia di base a due chitarre e stop. Uno dice, e va beh, lo fanno tutti. Ma in Italia no, quella roba lì a quei livelli del firmamento nazional popolare non era normale, non era comune. Non ho mai capito bene quelli che sostengono che Ligabue sia sempre stato un Ramazzotti qualunque. Boh forse oggi ci fa su per giù quella figura lì, però in un Liga un po’ oscuramente inquieto e New Wave nella campagne emiliane di metà anni Ottanta io voglio crederci. Come tra l’altro racconta questo pezzo clamoroso degli Offlaga Disco Pax pur senza fare il suo nome: dai, Ligabue che fa il fonico in un circolino ARCI mentre un cantautore sconosciuto si esibisce davanti a 20 persone è UNO DI NOI.
(se non sapevate nulla di questa storia e vi ha appassionati, integratela con la lettura di questo post di Max Collini di alcuni anni fa).
Ne approfitto per fare una confessione: a me Ligabue fino a Miss Mondo è sempre piaciuto. Aspetto da anni il momento in cui l’Indie italiano farà il solito balletto «Però sai che Ligabue tutto sommato…». Lo abbiamo fatto con gli 883? Lo abbiamo fatto con Vasco? Qualcuno da anni cerca di farlo pure con Grignani, maledizione. Luciano arriverà anche il tuo momento. Vedrai che qualcuno un giorno risuonerà, ubriaco e male, tutto Buon Compleanno Elvis al MIAMI.
Proseguendo, ho poi recuperato l’osannata puntata su Tabula Rasa Elettrificata dei CSI e sono rimasto a occhi e orecchie sbarrate tutto il tempo. Che roba gigante. Quando raccontano il viaggio di Giovanni Lindo e Zamboni in Mongolia vorresti essere andato con loro, quando Maroccolo fa risentire le sue parti di basso vorresti che non si fermasse mai. La cosa migliore è Giorgio Canali a cui davvero non frega nulla di nulla e che ad un certo punto mentre canticchia il ritornello di Forma e Sostanza dice «e poi c’è la parte con ‘Voglio ciò che mi spetta’ o quello che è» e tu gli leggi negli occhi «Ferretti mi hai rotto le palle da 30 anni». E quando Ginevra Di Marco e Magnelli si esibiscono acustici capisci proprio perché i CSI, che viene facile identificare con la figura di Ferretti, erano un vero gruppo, in cui ogni elemento era di importanza vitale per l’equilibrio del tutto. E inoltre ho scoperto, non lo sapevo, che il batterista dei CSI era Gigi Cavalli Cocchi, già batterista storicamente al fianco di chi? …Ligabue! Tutto torna, vedete.
Comunque, galvanizzato dalla visione, durante diversi viaggi in auto mi sono riascoltato tutto Tabula Rasa Elettrificata e altre cose e non lo facevo da chissà quanti anni. Che viaggio, che gruppo, che immensità. Evviva.
Poi ho visto con grande piacere anche quello su Carmen Consoli, in cui lei ha l’aria un po’ spiritata ma le canzoni sono incredibili, e quello su Pino Daniele. A me quel Pino degli inizi ha sempre ricordato Calcutta, sia nell’attitudine sia nel passaggio da sconosciuto ad istantaneo instant classic della sua generazione e ho confermato ancora di più questa impressione.
Infine ho amato uno sconclusionato Bennato che sembrava sotto LSD tutto il tempo.
Mi ha fatto venire in mente due cose: una è l’imitazione di Neri Marcorè di Bennato, che da bambino amavo imitare a mia volta. L’altra è che, lo avevo totalmente rimosso, nel lontano 2015 feci una cover di Venderò con loop station e chitarra acustica. La suonai una sola volta in un circolino di Cardano Al Campo una sera di novembre. Pubblico: 8 persone. Dovrei rifarla prima o poi.
Ho visto Fran Lebowitz: una vita a New York. Non avevo idea di chi fosse lei, ho visto la serie solo perché mi ha preso il trailer e perché c’era di mezzo Scorsese. Puntata via puntata mi ha proprio portato nel suo mondo, che poi, ho realizzato, è esattamente quel new yorkismo ebraico tipico di Woody Allen con il punk al posto del jazz.
Ad un certo punto lei e Scorsese citano il crollo del Mercer Arts Center negli anni Settanta e mi è venuto un deja-vu, che ho poi ricondotto alla visione, qualche anno fa, della straordinaria serie Vinyl di HBO, prodotta da Mick Jagger insieme a indovinate un po’ chi? …Luciano Ligabue. No non è vero, Scorsese, appunto.
Mi è tornata tutta in mente. Anni fa mi appassionai tantissimo alla prima stagione di quella serie mitica, che raccontava gli esordi del punk nella New York degli anni Settanta attraverso gli occhi di un immaginario discografico, Richie Finestra. In quel periodo proprio non ero avvezzo alle serie. Divenni dipendente solo da una, quella: cancellata dopo la prima stagione.
Prodotta da Jagger e da Scorsese dicevamo, prima puntata diretta da Scorsese stesso, personaggi fichissimi, cast che comprendeva gente come Olivia Wilde e addirittura uno dei figli di Jagger, sex, drug e rock ‘n’ roll. Cosa poteva andare storto? Tutto evidentemente.
Pochi giorni fa ho scoperto che all’inizio del 2021 sono stati messi su Spotify alcuni dischi di Daniel Lanois che mancavano all’appello, e che avevo ascoltato solo un po’ clandestinamente qua e là. Nello specifico si tratta di alcuni live, raccolte e soprattutto l’imprescindibile Here Is What Is, colonna sonora dell’omonimo documentario. Ne ho approfittato per riascoltare un po’ di sua roba sparsa. Sì ma chi è Daniel Lanois? Parliamone un po’. Non è facile descrivere cosa rappresenta nel mio immaginario questo immenso artista e produttore. Intanto è, insieme a Brian Eno (anzi, per me di più) il co-creatore del sound iconico degli U2. Per me raccontare gli U2 è una roba talmente complessa e totalizzante che non saprei bene nemmeno da dove cominciare, ragion per cui trovo sensato introdurre l’eventuale discorso raccontando le personalità gigantesche che gravitano attorno a loro. Lanois è semplicemente un genio del recording e della produzione; io ho scoperto i suoi dischi solisti solo alcuni anni dopo aver assorbito ogni virgola degli U2. Sapevo che Daniel aveva un suono ben definito perché ero cresciuto anche con i due dischi fondamentali prodotti con Bob Dylan, ma quando molti anni fa incappai nei suoi album solisti, tutti i puntini si unirono. Tutto ciò che amo della musica si trova nel suo modo di concepire le composizioni. Allievo di Eno, fu condotto nel 1984 a collaborare con gli U2 proprio perché Brian di fare dei dischi con sti sconosciuti ragazzini irlandesi non aveva nessuna voglia e sperava di sbolognarli passandogli l’incarico. Andò a finire poi che una volta conosciuti i 4 dublinesi Eno ci ripensò e quel disco, che divenne The Unforgettable Fire, lo co-produssero insieme, registrandolo in un castello.
Da allora il suono di Lanois si è evoluto molto ma ha mantenuto una linea.
La sua musica ha sempre un suono fluttuante e misterioso, che contiene elementi della motown, musica d’ambiente, noise, il jazz delle big band di New Orleans (dove spesso vive) e qualcosa che potremmo addirittura definire lo-fi. E’ ossessionato poi dalla pedal steel guitar, dalle Gibson Les Paul e dai Vox AC30.
La caratteristica principale della sua produzione è che fa sembrare che ogni momento sia di fatto improvvisato; lui non ama comporre arrangiamenti canonici ma perlopiù, per cominciare, coglie momenti di interazione tra i musicisti. In un secondo momento registra tantissime sovraincisioni di qualsiasi cosa. Dopodiché, come elemento che ne sancisce la firma, Lanois utilizza lo stesso approccio ‘improvvisativo' durante i mix, che è una cosa folle. Per lui il mixaggio non è una semplice fase: è una performance. Si mette davanti al banco mixer e improvvisa con i volumi. Fa entrare e uscire strumenti, aziona e toglie effetti, soprattutto delay, in base al climax della canzone, governa la registrazione come se fosse un aereo. Il risultato sono pezzi in cui in ogni momento ti aspetti che succeda qualsiasi cosa. Suoni che arrivano e poi scompaiono di colpo da qualsiasi lato del pan, loop che si mangiano a vicenda, bassi che fanno a braccio di ferro fino a finire dissolti dall’ingresso di chitarre disturbate. Un visionario. Negli ultimi anni ha portato tutte queste suggestioni in un contesto soprattutto strumentale.
In un pezzo del 2008 di nome Where Will I Be, Daniel fa duettare il grande batterista jazz suo amico Brian Blade con una vecchia traccia di batteria suonata da Willie Green nel 1989 per un’altra sua canzone, chiedendogli espressamente di suonare attorno ai colpi. Il momento di quella registrazione si può vedere qui. Quando Blade si mette le cuffie e parte la traccia si mette a ridere di incredulità perché di fatto è una roba assurda da mettere in un disco. Ecco che successivamente, per mixare, Lanois prende le due tracce di batteria, intere (rullo, cassa e charlie) e ne mette una a destra e una a sinistra del panning. Incredibile, pazzesco, fantasmagorico. La canzone (che di suo ha già un songwriting gigantesco) non si perde in confusione nemmeno per mezza battuta e ti tiene avvinghiato per 4 minuti come in un’ipnosi, con i suoni che scivolano gli uni sugli altri e la voce che maestosamente si piazza esattamente in faccia. Praticamente crea uno spazio fisico palpabile nel quale ti sembra di essere catapultato. Se c’è qualcosa che si avvicina alla magia, per quanto mi riguarda è questa roba qua.
E vi ho descritto solo un pezzo.
Frank Zappa diceva che scrivere di musica è come ballare di architettura. Voglio bene a Frank ma la considero una grandissima cazzata. Da sempre credo anzi che leggere di certa musica non aiuti solo a capirla, spesso crea un universo parallelo alla musica stessa, in cui è quasi più esaltante, per chi legge, la descrizione dell’effetto che quella musica fa allo scrittore piuttosto che il suo effettivo valore. Ho rafforzato questa convinzione incappando in questo articolo sui Duran Duran scritto dal me già citato Demented Burrocacao (ossia la primissima altra metà di Calcutta, quando il progetto era un duo). Lui è sempre ottimissimo, uno dei più bravi giornalisti musicali che abbiamo in Italia. Praticamente questo articolo è talmente pieno di passione e di competenza che mi ha fatto venire voglia di ascoltare tutti i dischi dei Duran Duran, anche quelli che vengono descritti con dovizia di particolari come brutti. Se un articolo ti fa venire vogliamdi ascoltare l’opera omnia dei Duran Duran significa che sì, è scritto dannatamente bene.
Ed eccoci arrivati allo zenit del nerdismo musicale di oggi: mi sono fissato con l’idea che volevo suonare roba MIDI senza passare attraverso un controller simil pianoforte come faccio di solito, bensì usando una chitarra. Visto che però le chitarre MIDi costano trentordicimila euro, ho trovato un programma assolutamente precario ma divertentissimo di nome MIDI Guitar II. Ora posso fare dell’ottima ambient. Chitarristi là fuori, ve lo consiglio.
Mi sono fatto degli occhiali per vedere da lontano perché da diversi mesi, forse anni, una offuscazione reale si stava unendo a quella mentale già ben conclamata. Mi si è spalancato il mondo nel quale vivete tutti ma del quale io ero ignaro da tantissimo tempo. È come se da anni vedessi ogni cosa oltre i 3 metri a 360p e ora si è trasformato tutto in 1080p60 HD. Mi sembra di essere costantemente sotto l’effetto di una droga psicotropa che amplifica i miei sensi e mi sorprendo nel guardare cose come…gli alberi. Forse non è che il mondo era brutto, è che semplicemente non lo vedevo.
A proposito di 33 giri, ho visto appeso su un cavalcavia un enorme lenzuolo con scritto a bomboletta nera «TRENTATRE' FUORI SU YOUTUBE». A parte che ho scritto poi trentatré su YouTube e ho trovato solo l’inno degli alpini, mi ha colpito perché stavo giusto riflettendo su un possibile movimento ideologico per uscire in massa da Internet. Cioè pensateci, su Internet trovi rimandi a cose incredibili e fondamentali che dovresti andare a fare, vedere, leggere, fruire…su Internet. E anche nel mondo esterno oramai è spesso così. Prendete i cartelloni con le pubblicità delle serie di Netflix, sembrano dirti: cazzo ci fai qui? Quanto fa strano l’idea che uno faccia una cosa old school come scrivere su un lenzuolo per dire: guarda che c’è una roba su YouTube. Allora, per quando si tornerà a vivere, vorrei creare un super movimento dal basso che si prenda la responsabilità di utilizzare Internet solo per comunicare all’esterno DOVE sarà possibile trovarsi per fare qualcosa. Una specie di manifesto controculturale in cui chi aderisce non potrà più utilizzare Internet per affermare, creare, discutere, ma usarlo solo per dire dove sarai reperibile per fare tutte queste cose dal vivo.
Dopo aver trovato il nome della puntata di oggi sono finito nella pagina di Wikipedia dedicata appunto a Jumpin’ Jack Flash e ho scoperto che inizia così: «Jumpin’ Jack Flash è una canzone di Thelma Houston del 1969, rifatta dal gruppo musicale britannico Rolling Stones». MA CHE E’? Ma chi l’ha scritta? Andate a vedere, è surreale. Va beh, comunque a tal proposito ecco una foto di Keef di pochi giorni fa, a 77 anni più cool di tutti noi e non possiamo farci niente:
L’1 febbraio un mio disco di nome Nessuno Lo Deve Sapere ha compiuto due anni. In verità l’uscita di quel lavoro mi sembra di appena qualche mese fa e per i motivi che conosciamo tutti mi fa un po’ incavolare questa cosa. Ma questo anniversario mi ha brevemente riportato anche al periodo precedente a quell’inizio del 2019. La lavorazione di quel disco, durata mesi e mesi estenuanti, è stata una specie di saga che ha avuto colpi di scena degni di un thriller. E non mi manca.
E’ un’affermazione forte ma per me meglio il 2020 del 2018.
A proposito del tempo che passa, l’altro giorno il mio amico Nico Cagnan mi ha detto «Ho realizzato che sono 5 anni dalla nostra vacanza in Toscana».
Nella mia testa è una mia vacanza recente.
E con questo possiamo fermarci direi.
Mi è piaciuta molto questa modalità anarchica, mi sono pure fatto prendere la mano. Potrei riproporla. Vediamo.
Ora esco. Ci sono un sacco di alberi da vedere a Milano.
Ciao!
Brennekedo