IRA
Aprile, sera. Interno auto. Io e Dani stiamo andando al concerto milanese in teatro di Iosonouncane, che consiste nell’intera esecuzione di IRA, la sua ultima opera.
Avevamo preso i biglietti due anni fa, poi il tutto è stato rimandato, come milioni di vite rimandate, all’aprile 2022.
Dani è un grande esperto di Iosonouncane e mi sta brevemente preparando al concerto che vedremo: “È il suono archetipale di una moltitudine di uomini che si sposta da un luogo all’altro”, mi spiega. Decido che questa frase mi guiderà come un faro per tutta l’esperienza.
Le mie aspettative per questo concerto consistono nel non averne.
IRA doveva essere suonato integralmente nel 2020 prima dell’uscita ufficiale del disco, con il pubblico al totale oscuro di tutta l’opera. Ovviamente in questi 2 anni l’album è stato pubblicato, ragion per cui il tour in teatro si è trasformato in un appuntamento più convenzionale, di presentazione di un lavoro che si presume che il pubblico abbia già assimilato. Io ho evitato di ascoltare IRA proprio per cercare di mantenere lo spirito originale del concerto; oltretutto in questi mesi non avevo trovato la giusta collocazione per una musica così importante. Non è qualcosa che puoi ascoltare in macchina o lavando i piatti. Occorreva una ritualità, appunto. La mia ritualità è questa sera.
Parcheggiamo di fortuna, l’aria ancora bagnata di pioggia. Camminiamo qualche metro e arriviamo in teatro. C’è già un buon numero di persone e il pubblico della serata pare composto in modo strano. A sentire una complessa e stratificata opera semi-elettronica con una formazione di sette elementi ci sono hipster della prima e ultima ora ma anche signore con bambini e personaggi più attempati che non connetteresti ad un evento del genere.
Mostriamo i biglietti, passiamo a prendere un paio di bottiglie d’acqua al bar. C’è naturale, frizzante ed economica. Quella economica consiste in niente. Gli spazi comuni dei teatri hanno un un’energia inespressa che mi ha sempre affascinato. Sono luoghi fintamente sterili o spogli. In verità sono un fascio di vitalità silenziosa. Ti invitano a rivedere te stesso, a meccanicizzare il tuo corpo e la tua mente in una gestualità d’altri tempi. Ti suggeriscono il portamento da adottare visto il luogo in cui stai entrando e sono spazi che non hanno bisogno di essere addobbati: lo sono già, dai codici del teatro stesso. Richiamano ad una pacatezza atavica. Una disposizione all’esperienza sociale.
Entriamo, siamo in quinta fila. Cerchiamo i posti, ci sediamo e ci guardiamo attorno. Il teatro vuoto è bellissimo e il palco allestito e in attesa di essere calcato è un piacere da osservare. Fa molto caldo e ci si deve abituare, al clima, all’atmosfera, alla luce.
Poco distanti da noi si siedono due ragazze. I loro posti danno sulla fine della nostra fila. Avranno attorno ai vent’anni e l’aria delle universitarie in lauree umanistiche. Una delle due, senza mascherina, indossa un cappellino con visiera e una felpa degli Slayer che stona un po’ con la sua figura. In lei hanno l’aria di coesistere due anime diverse: da un lato, a sentimento, nella sua figura traspare una certa connessione con il mondo del fashion e della moda. Da un altro il suo modo di muoversi e di scrutare il teatro possiede un che del mondo dei rave.
La sala si riempie lentamente. Ci stiamo ambientando.
La più grande differenza tra un concerto in teatro e in un palazzetto, un festival o ogni altra situazione in piedi, è che spostarsi è difficile. Decidere di sgranchirsi le gambe o dare ascolto ad ogni altra necessità implica di assumersi la responsabilità di disturbare chi è seduto di fianco, costringendo le persone ad alzarsi dal proprio posto per permettere a te di passare. Dunque, la consapevolezza della presenza degli altri esseri umani è fondamentale per far parte del pubblico del teatro, più che in altri luoghi. A mano a mano che si siedono, non appena si rendono conto che ogni movimento significherà creare delle sfilate imbarazzanti lungo tutta la fila, le persone iniziano ad organizzare una silenziosa quanto fitta rete di decisionismo logistico mirato alla convenienza. Tutti, dopo aver posato le giacche ed essersi guardati attorno, iniziano a dire al vicino: «Dai io vado in bagno adesso, meglio». Pian piano ognuno si alza per recarsi al servizi; dopo l’iniziale irritazione tutti si abituano rapidamente ad una coreografia che prevede che intere file scattino in piedi alla prima avvisaglia di passaggio, come delle ola silenziose e mono linea.
Ebbene, io e Dani, dopo aver commentato nerdisticamente il set dell’artista d’apertura, rispondiamo alla stessa chiamata di ansia anticipatoria. Prima va lui in cerca del bagno. Torna dopo qualche minuto, e costringe ovviamente le ragazze di fianco a noi ad alzarsi. Ne approfitto per fuggire come un ninja nello spazio creatosi proprio prima che lui entri nella fila, vergognandomi per il disturbo irrefrenabile nella ritualità ormai automatica. Mi sento più tranquillo, il peggio è passato: sono uscito dalla fila e tutti coloro che ho disturbato sanno che verranno da me ulteriormente disturbati tra pochi attimi: dovrò pur tornare a sedermi. Io lo so, loro lo sanno. Un patto implicito.
Torno dal bagno che le luci sono già spente, fumi di scena iniziano a divorare il palco. Individuo la mia fila, mi avvicino per l’ultima alzata di gruppo dei nostri vicini di posto. Pronuncio un convenevole finale, a suggello dell’ottimo lavoro di squadra: «Grazie mille, scusate, è davvero l’ultima volta».
La ragazza con il cappellino e la felpa degli Slayer non mi lascia nemmeno arrivare alla fine della frase. «Avete rotto il cazzo ragazzi».
Così.
Detto senza sorriso ma anche senza sforzo, senza nemmeno espressività. Senza guardarmi. Detto con confidenza. Come fossi un parente, un fratello, un compagno di classe, un amico. Semplicemente, dai, ho rotto il cazzo, abbiamo rotto il cazzo. Una specie di piccolo affetto disinteressato. Passo bofonchiando qualcosa a proposito del fatto che la prossima volta potrebbero affittarsi il teatro ma, me ne accorgo, nel dirlo sembro davvero un vecchio. Mi sembra di essere in quella scena de I Corti in cui Aldo Giovanni e Giacomo interpretano il pubblico. Lei è ben più giovane di me eppure da parte sua c’è stato un processo di riconoscimento antropologico: è evidente che questa ragazza, che non ho mai visto, considera me, Dani e forse tutte le persone che l’hanno fatta alzare durante la serata dei suo pari, appartenenti alla stessa categoria umana della quale fa parte lei. Ci considera compagni di classe (sociale) di una classe che per lei è, probabilmente, il grosso del mondo di età variabile tra i 16 e i 40 anni. Appartiene alla generazione che crede nel villaggio globale, che ha imparato in fretta che ogni diritto di ciascuno non va messo in discussione perché le manifestazioni di umanità ed auto affermazione sono sacre. La generazione che non crede nelle barriere, segue i talk socialmente impegnati su Instagram, conosce i film di Truffaut e di Tarantino, odia Renzi perché ha distrutto la sinistra italiana, ama la moda e il fashion ma anche i rave ma anche gli Slayer e va a vedere il concerto di Iosonouncane a teatro. E tutti gli appartenenti al genere umano sono un’entità talmente da rispettare, talmente tutti fratelli, i confini talmente una cosa vecchia, che dire “Hai rotto il cazzo” ad uno sconosciuto rientra in un codice comportamentale pienamente democratico. Se sei mio fratello, perché non posso effettivamente trattarti come tratto mio fratello? Non so se sentirmi lusingato dal fatto che mi consideri tale o offeso dal fatto che mi abbia risposto male.
Mi siedo con amarezza, ma anche con curiosità. Racconto a Dani quanto successo, lui è stupefatto.
Ma forse, penso, quel che è avvenuto è la rappresentazione di un diffuso livore sottocutaneo più che legittimo: d’altronde ci troviamo o no ad un concerto che si chiama IRA?
Inizia.