Milano, 2 aprile 1976. Francesco De Gregori sta suonando al Palalido.
È la sua seconda esibizione nello stesso giorno. Il pomeriggio ha tenuto un concerto per i ragazzi più giovani; prassi molto comune quella del doppio live pomeridiano e serale in quegli anni: nel 1970 anche i Rolling Stones avevano fatto la stessa cosa.
Francesco si sta esibendo nervosamente. È una serata tesa e lo sanno tutti: ogni concerto di ogni artista in quegli anni lo è. Per garantire al pubblico animi più distesi, le luci del palazzetto sono completamente accese.
La maggior parte, tra i 6000 presenti, è al Palalido per ascoltare la musica. Ma un immancabile gruppo della sinistra extra parlamentare è lì per fare politica. Cominciano a urlare, a dare a Francesco del venduto, del servo del sistema. Ci sono tafferugli ma l’esibizione viene portata a termine. De Gregori si rifugia in camerino ma viene forzato ad uscire e a tornare sul palco mentre un gruppetto di contestatori, che si dicono appartenenti ad un sedicente movimento di “autonomia operaia”, ne prende possesso.
«Se sei un compagno non a parole ma a fatti, lascia qui l’incasso», gli dicono. Odiano ciò che cantautori come De Gregori rappresentano. Li ritengono artisti colpevoli di apparire politicizzati ma di flirtare con il mercato. A loro quel tipo di gente no, non va proprio giù. Lui non sa cosa rispondere. Loro continuano: «Prima si fa la rivoluzione, poi si potrà pensare alle arti o alla musica. Lo diceva anche Majakovski che era un vero rivoluzionario e si è suicidato. Suicidati anche tu». De Gregori torna in camerino e piange.
Suicidati. Usarono davvero questa parola. Quella stessa sera Francesco annullò il resto del tour e dichiarò: «Non canterò mai più». Aveva in quel momento 25 anni e da poco aveva dato alle stampe Bufalo Bill. Rimase fermo dalle scene un anno intero, si dice lavorando in una libreria.
Per fortuna poi ci ha ripensato e ha cantato ancora.
È una storia molto nota, tanto che raccontarla oggi suona un po’ stereotipata.
Ma la cito perché a mio avviso riesce a dare un solco storico, seppur vago, a quanto accennavo la volta scorsa: per tanti anni dove c’è stata musica in Italia c’è sempre stato qualcuno a sfracassare tutti con le risse verbali.
Un pubblico, come abbiamo capito, fanatico, pazzo, violento, politicizzato in modo del tutto distaccato dalla realtà. E io credo ci sia un nesso culturale tra le contestazioni politiche a De Gregori e quelle (ben più leggere) di 30 anni dopo agli Afterhours per le scelte artistiche.
Il nesso è che gli italiani sono dei rompicoglioni, sia che le cose vadano bene sia che le cose vadano male.
Gli Afterhours stuzzicavano appunto quella vena polemica ancora ben radicata quando nel 2006 cantavano dal vivo spesso e volentieri le versioni in inglese da Ballads for Little Hyenas (scritte per il mercato statunitense) solo per il gusto di far incazzare un po’ tutti. Il pubblico urlava «Italiano! Italiano!». Agnelli in quegli anni era celebre per i litigi dal palco e per una certa altezzosità. Una volta si era addirittura beccato una bicchierata di vino in faccia durante un live a Napoli mentre cantava Voglio Una Pelle Splendida e aveva risposto: «Almeno fosse vino buono, testa di cazzo». Insomma, Manuel decisamente non era come De Gregori, che elegantemente si chiudeva nelle riflessioni in sé stesso. Ad Agnelli piaceva litigare. A volte un attimino troppo. Era arrabbiato, era “contro”.
Ecco, se l’altra volta ho sorvolato disordinatamente su un po’ di cose che mi venivano in mente di tutto l’indie italiano del primo decennio Duemila, oggi voglio fare un excursus proprio su Manuelone; lo ritengo un caso emblematico di come si sia evoluto l’alternative italiano.
Mi ha sempre fatto ridere (non in senso denigrativo, ridere nel senso “che ridere!”) che Agnelli sia diventato per tutti, in ambienti come la RAI per dire, la figura del rocker intellettuale maledetto ma rassicurante. Il rocker per bambini insomma. Quello che si presenta a torso nudo a X Factor, CHE ROCK. Intendiamoci, sono felice che uno come lui possa apparire, essere noto, fare il suo, perché credo nella sua buona fede e sono sicuro che se lo meriti.
Ma la verità è che secondo me nessuno di quelli che hanno portato negli ultimi anni Agnelli mediaticamente in palmo di mano sa chi effettivamente Agnelli sia.
Quelli che hanno affidato il programma Ossigeno a Manuel su RAI 3 sanno che la prima canzone del suo disco più famoso inizia con un bestemmione succosissimo? O che un bellissimo pezzo dello stesso disco inizia con “Forse non è proprio legale sai, ma sei bella vestita di lividi”? Una roba che solo a pensare di scriverlo in una canzone oggi hai la carriera finita.
Sanno che la metà dei primi dischi degli Afterhours sono composti da canzoni che parlano di eroina travestite da canzoni d’amore?
Sanno che Agnelli è quello che descriveva con enfasi particolare un certo tipo di modo di sollazzarsi in un libro di racconti dall’esplicativo titolo Il Meraviglioso Tubetto?
E ancora (non riesco a fermarmi), conoscono l’ossessione del nostro per l’attività riproduttiva?
Perché nessun conservatore parrucco (che il computer mi ha corretto in parroco) ha mai fatto una bella INTERROGAZIONE PARLAMENTALE SU AGNELLI IN RAI? Porco cane Salvini, Gasparri, Meloni, Giordano, Santanché devo dirvi tutto io? Ancora a prendervela con Fedez, quando avreste lì del materiale per lavorare che è un bijou. Che delusione, che amarezza.
La RAI, ricordiamolo, è quella in cui esplosero le polemicone per Rufus Wainwright ospite a Sanremo nel 2014 a causa di una canzone chiamata Gay Messiah. Certa stampa e i Papaboys lo descrissero come una specie di Marilyn Manson, il personaggio era trasgressivo tanto così.
Invece Agnelli quatto quatto la passa liscia. Che cosa è successo nel nostro paese per far accomodare questo sciamannato nella tribuna d’onore?
Secondo me la risposta è semplicissima: niente. Proprio niente, nel senso che nessuno di quelli che oggi considera Agnelli “normale” sa che per più di vent’anni lui ha fatto di tutto per essere l’anomalia più assoluta e disturbante. Non si sono mai posti il problema, non è mai fregato, appunto, niente.
Non credo che l’Italia sia diventata di colpo aperta ad ogni forma di manifestazione artistica, credo che nessuno in RAI abbia mai ascoltato una sola canzone di Manuel, né abbia aperto mezzo Google. Agnelli conta così poco che non è nemmeno degno di un tweet di Gasparri. È famoso su Sky, ha la parlantina, qualcuno lo guarda. Ok, sei dentro capellone. Portaci il canone degli hippy e dei drogati. Ecco il nostro nuovo Rita Pavone!
Secondo me il fatto che Agnelli indisturbato abbia conquistato le vette dell’intellighenzia nazional popolare è semplicemente una piccola svista di tutti quelli che hanno appoggiato la sua scalata: lui lo sa benissimo e se la gode alla grande.
E non parlo ovviamente solo degli aspetti che il minculpop del 2020 potrebbe trovare godurioso censurare se ne conoscesse l’esistenza. Nessuno di “quelli” sa nemmeno che Agnelli ha scritto roba come Bye Bye Bombay, Non è Per Sempre o Dentro Marylin, cioè alcuni dei brani più belli della musica italiana di sempre, titoli presi a caso da un canzoniere formidabile e impressionante in quanto a qualità.
L’indie (parola un tempo bellissima) italiano ha avuto un’evoluzione simile a quella di questo suo padre putativo. Essì, ho fatto tutto ‘sto pippone partito dal 1976 per tornare all’indie.
Abbracciare il pop, nell’indie, all’inizio era una forma di provocazione di fronte a uno sparuto gruppetto di persone. “Astro nascente di quattro poveri stronzi”, no? Poi la cosa è nettamente sfuggita di mano e qualcuno ha iniziato a prenderci gusto.
Alcuni un po’ ricordano il passato ma preferiscono non rivangare un’epoca fatta di nicchie spesso intransigenti ed esclusiviste, che a tratti ricordavano un po’ quella sera del ’76, dalle quali per certi versi è stato meglio fuggire. Praticamente i sopravvissuti dell’indie somigliano ai rifugiati politici dei regimi comunisti.
Durante quel 2012 di cui vi raccontavo l’altro volta i rifugiati erano già scappati tutti. Si stava liberando ampio spazio da ripopolare, solo che nessuno ancora se n’era accorto. Quasi nessuno.
Dopo la sera del concerto con Lo Stato Sociale, ci furono alcuni mesi di stallo e di dubbi per Il Fieno.
Come detto, Fab aveva annunciato che se ne andava. Suonò con noi un ultimo concerto in assetto elettrico, a Legnano, dalle parti nostre, verso marzo. Eravamo in un locale di una certa grandezza chiamato Land, uno di quei luoghi in periferia che al sabato avevano la serata gruppi e dalle 00.00 la serata discoteca. Quando suonammo il pubblico non era molto, e di certo non stava aspettando una scorpacciata di schitarrate new wave. Mi domando quanti folgorati dalla nostra proposta il giorno seguente si siano tuffati su internet alla ricerca di notizie su Unknown Pleasures dei Joy Division. Spero un buon numero, ma durante il nostro set ricordo perlopiù gente che ci urlava di fare roba dei Club Dogo.
Si chiudeva dunque all’insegna di Guè Pequeno la storia della prima formazione di quel gruppo.
Nei mesi a seguire suonammo almeno un concerto acustico in trio e provammo vari batteristi. Incappammo in Momo quasi per caso, Gabri lo conobbe in un locale. Batterista e produttore valdostano che viveva tra Aosta e Milano, divenne il nostro quarto uomo. Era sempre la persona più carica del mondo. Se c’è stato qualcuno ad insegnarmi a non perdermi mai d’animo qualunque sia la situazione in cui si suona, quello è Momo.
Qualche mese dopo, a giugno, ci offrirono una data in un locale di cui non ricordo il nome che credo fosse a Fagnano Olona, in provincia di Varese.
Il promoter della serata era un tizio di nome Dj Virus Salvatore, che aveva chiamato noi e un’altra band della zona di nome LP#9, nome preso dalla filastrocca mefistotelica che John Lennon aveva voluto inserire nel White Album. Ci conoscevamo di vista, con il bassista Federico avevo degli amici in comune, ma non avevo mai parlato con gli altri.
Il posto era bello, sostanzialmente era una grande tensostruttura con un edificio adiacente che fungeva da spazio bar, in una zona praticamente di campagna. Pioveva da impazzire, iniziammo a fare il soundcheck con i tuoni e l’acqua che accerchiavano il tendone, dai cui lembi mezzi aperti gocciolava minacciosamente la pioggia a pochi centimetri dai pedali, le prese, i cavi.
«Ma non è che restiamo fulmina..».
Pam.
BOOOOOOOOM.
Un boato tranciò la frase di Ale. buio totale, ampli e pedaliere spenti, forse qualcuno prese la scossa. Salvatore venne da noi: «Ragazzi, che ne dite se rimandiamo?». Ci pareva una splendida idea.
Era già ora di cena, così quella sera facemmo le uniche due cose che fanno i musicisti oltre ai concerti: allestire il soundcheck e mangiare la pizza. Uniti da una situazione piuttosto curiosa, noi e gli LP#9 diventammo amici. Avevano molte cose da chiederci, perché anche loro stavano iniziando a lavorare con lo stesso produttore con cui, ormai più di un anno prima, avevamo fatto il nostro disco.
Erano parecchio diversi da noi, amavano il brit pop ma anche la formula della tradizione italiana classica. Rifuggivano dagli intellettualismi autoriferiti ma amavano l’immediatezza. Soprattutto scoprimmo che erano simpaticissimi.
Da quella sera iniziammo a vederci spesso, parlavamo di musica, di vita e ci facevamo delle ghignate incredibili. Suonavamo concerti insieme e andavamo a quelli degli amici. Avevamo idee diverse sulla musica e sull’arte ma insieme ci confrontavamo sulle strategie migliori per prenderci un posto nella scena. Loro credevano in un approccio squisitamente pop sganciato da ogni pesantezza intellettuale, noi credevamo ancora in una forma di pop connessa a delle radici intimiste e “difficili”. Noi volevamo che il pubblico dovesse elevarsi verso la nostra forma, loro volevano andare direttamente a prenderselo il pubblico.
E lo sapevano davvero fare. Di alcune loro canzoni dell’epoca, che non ho avuto più modo di sentire dopo quegli anni e che devo aver ascoltato in tutto solo una manciata di volte, potrei canticchiarvi il ritornello ancora adesso.
Rimasi nella formazione de Il Fieno circa un altro anno. I rapporti tra di noi erano diventati piuttosto burrascosi; per quanto ci provassimo, non riuscivamo a disfarci da quell’aura di pesante seriosità da scena alternativa d’altri tempi, non c’era proprio verso. Senza successo cercammo ancora un po’ di coniugare le spigolosità alternative con quella raggiungibilità tipica della canzone pop.
Proprio in quel periodo c’era un altro nome che, seppur in modo più caciarone, si sforzava di coniugare questi due mondi, e rinforzava questa sua visione prodigandosi addirittura in duetti con Federico Fiumani. Era Tommaso Paradiso. Tempo un paio d’anni e lui e la sua band avrebbero spazzato via ogni residuo di alternative da sé stessi. Nel farlo, avrebbero misteriosamente creato una enorme aura riverberatrice che avrebbe coinvolto tutta la musica indipendente italiana. I muri stavano cadendo davvero, e l’unica cosa a salvarsi sarebbe stata solo la parola indie.
I nostri amici LP#9 avevano sempre istintivamente colto esattamente quello che stava accadendo, ancora prima di sapere che sarebbe effettivamente accaduto. Nel corso dell’anno successivo a quel nostro primo incontro decisero di cambiare nome alla loro band. Ne scelsero uno molto più elegante e immediato: Canova.
Balzo in avanti: eccoci dopo 8 anni in questo 2020 pazzerello. Quell’indie politico, arrabbiato, etico, valoriale, con il suo orgoglio da “anni di piombo”, è stato culturalmente e definitivamente sostituito. Le radici di quel moto sono cresciute proprio davanti agli occhi di tutti noi.
Essenzialmente, indie oggi è solo una parola che determina una fetta di mercato per un target di ragazzi giovani dentro il moto di spotifizzazione della musica. Alcuni credono addirittura sia un’espressione emersa appositamente per descrivere il movimento di neo pop italiano degli ultimi anni. «Il nuovo fenomeno», si sente a volte qua e là, da parte degli stessi che, se non avesse fatto X Factor, metterebbero Agnelli tra le nuove proposte di Sanremo Giovani. A 54 anni. Gli stessi che lo scorso anno, mentre Morgan si chiedeva «Dov’è Bugo», a loro volta si chiedevano «Chi è Bugo?»
«L’Indie? Ah sì, quello di Paradiso».
«Agnelli? Ah sì, quello di X Factor».
Parole che somigliano più a involucri. Qualcuno sa cosa contengono. Qualcuno no.
E le alternative band degli anni 2000? Ah sì, quelle che ci hanno provato.
Ma sapete, c’è un personaggio che oggi mi viene in mente in relazione al nome di quel mio gruppo di allora. Era uno che brucava, per l’appunto, il fieno, si chiamava Ronzinante: il cavallo di Don Chisciotte.
Varie settimanali:
- L’altra sera è successa una cosa che attendevo da tanto tempo: senza alcun preavviso, Ryan Adams ha pubblicato un nuovo album, che si chiama Wednesdays (anche se è curiosamente è uscito di venerdì). Mi sembra un lavoro molto intimista ma non ho ancora capito del tutto a che livello si ponga nella sua vulcanica discografia. È difficile in poche parole spiegare perché io ritenga questo artista, ormai da diversi anni, uno dei più incredibili songwriter della storia. Forse alcuni di voi ricorderanno che la sua carriera aveva subìto un brusco stop nel febbraio del 2019 quando diverse donne, tra cui l’ex moglie Mandy Moore, lo avevano accusato di essere uno squilibrato molestatore narcisista e cintura nera in violenze psicologiche. Quella storia mi aveva afflitto molto, perché non credevo che la sua pazzia e il suo tormento (che a mio avviso erano da sempre piuttosto visibili) potessero renderlo un tale mostro (espressione usata para para anche dal suo ex chitarrista Todd Wisenbaker che in una lettera aperta gli aveva scritto anche: fatti aiutare). Pur essendo io uno strenuo difensore della presunzione di innocenza, non faccio fatica a credere che Ryan abbia davvero fatto quanto raccontato dalle persone a lui vicine. Per tutti questi motivi l’ascolto di queste nuove canzoni mi provoca sensazioni contrastanti, ma non posso nascondere di essere felice per la pubblicazione del disco.
- Giusto parlando degli Afterhours, ho trovato un documentario straordinario che copre tutta la storia della band fino al 1997. Sia che conosciate bene gli After sia che non li conosciate affatto, ve lo straconsiglio.
- Questa settimana ho scoperto una delle pagine miglior di tutto Facebook. Si chiama “Che ore sono?”. Nei post e nei commenti dice solo che ore sono.
- L’altro giorno ho scritto un post su alcune elucubrazioni su una da me teorizzata futura era post fonografica. Non me l’aspettavo ma ne è nato un dibattito interessantissimo che mi sento di segnalare, se volete contribuire ecco qui!
Grazie come sempre a tutti voi per essere arrivati fino a questo punto e avere addirittura sopportato una puntata doppia! Ma chi ve lo fa fare?
Vi abbraccio tutti!
Brennekedo