È una settimana un po’ strana. Da martedì io e Carlotta finalmente non possiamo rischiare di prendere il Covid: ce l’abbiamo già. Stiamo bene, è pure interessante essere la notizia anziché leggerla e basta per una volta. I primi due giorni in particolare eravamo piuttosto affaticati e al momento non distinguiamo bene la maionese dallo yogurt, il che può essere un problema, soprattutto a colazione. Però ci stiamo riprendendo.
Non sono stati giorni straordinariamente attivi, ma in mezzo a tutto questo ho scritto un articolo, più per necessità che per volontà. Mi ha lasciato, a dire la verità, una grandissima sensazione di amarezza, non perché non ne sia stato soddisfatto, tutt’altro, ma perché ho messo nero su bianco delle verità che mi hanno fatto sentire davvero sfiduciato.
All’inizio della settimana sono circolate senza molto controllo e con un livore del tutto privo di senso alcune dichiarazioni che Bono ha rilasciato ad un podcast americano durante una lunga intervista. Nulla di che, si è semplicemente aperto ad un po’ di auto analisi critica sulle insoddisfazioni tipiche dell’artista che guarda alla sua retrospettiva. In definitiva ha raccontato dell’imbarazzo che lo coglie nel riascoltare le sue canzoni del passato (specialmente la voce), opere che per quanto clamorose non possono reggere il giudizio più duro: quello del loro creatore.
Non ci ho fatto nemmeno caso lì per lì (era tutto normale per i fan, già sentito mille volte da Bono e nell’ordine delle cose nel mondo degli artisti) ma poi nel leggere le reazioni della gente mi sentivo sempre più colto da moti di abolizioni del suffragio universale. Pareva che nessuno avesse mai preso in mano un libro di Storia dell’Arte in vita sua. Una follia. «Non fare il fan - mi sono detto - mo’ la smetteranno». Quando sono arrivato all’editoriale delirante di Gino Castaldo su Repubblica non ci ho visto davvero più. La mia contro risposta a questo ciarpame ci ha messo un paio d’ore a venir fuori.
Ho pubblicato quel pezzo non tanto per difendere Bono, non credo che l’uomo che ha scritto Running To Stand Still e So Cruel ne abbia bisogno, quanto per difendere me stesso. Per difendermi dall’idiozia e dalla bruttissima decadenza del pensiero di questi tempi sciagurati. Parlare di arte, parlare del senso delle cose, parlare e basta, è diventata francamente una pratica nobile quanto rara: presto i parlatori esisteranno solo di professione. Tutti gli altri saranno dei sillabatori.
Ogni cosa è un quadretto per abbellire un’impalcatura concettuale meno che mediocre, abituarsi ad usare appena una manciata di caratteri per esprimere ogni sfumatura dell’intelletto umano sta influenzando non poco anche la percezione stessa dell’intelletto, direi. Il “dibattito” scaturito dalle dichiarazioni di Bono rappresenta l’idea che la gente (anche e soprattutto i vergognosi “addetti ai lavori”) ha dell’arte e della creatività oggi. Il confronto pubblico è diventato una fanghiglia dalla quale davvero io a volte mi sento sommerso. Ha riassunto molto bene il mio disagio Carlo Bordone in un illuminante post su Facebook: «Le ironie sulle dichiarazioni di Bono e sul pianto di Adele dimostrano che la nostra concezione degli artisti è esattamente quella espressa da Conte in quella famosa e infelicissima frase: "i nostri cari amici che ci fanno tanto divertire". Dei giullari, dei saltimbanchi, gente di nostra proprietà».
Casualmente proprio questa settimana ho iniziato un libro sensazionale, “La voce di Bob Dylan”, del saggista e docente universitario Alessandro Carrera. Sì è vero, parlo sempre di Dylan, ma come ho detto anche nello scorso numero io ascolto pochissime cose e sempre le stesse. La grazia nella scrittura di questo testo ha fatto stridere ancora di più con la mestizia che percepivo là fuori, alzando il muso dalle pagine. È un libro dalla lunghezza portentosa, che racconta l’opera di Dylan nel suo afflato letterario. Ogni canzone sembra un personaggio, ogni capitolo sembra una trama, ogni connessione un colpo di scena. Affronta la complessa arte di un cantautore come andrebbe trattata ogni cosa: con cura.
Il significato che potrei attribuire a questa lettura, nel gioco di incompatibilità tra la barbarie e l’intelletto, è che forse una via d’uscita dalla decadenza si può ancora trovare.
There must be some kind of way outta here
Said the joker to the thief
There's too much confusion
I can't get no relief
Lo diceva una canzone di Dylan. Che, guarda caso, ha cantato anche Bono.