Alla fine dello scorso anno mi sono accorto di essere un impostore. Sempre più, negli ultimi tempi, la mia passione per la musica somiglia ad un vistoso travestimento. Non perché non sia reale, tutt’altro, ma perché è sostanzialmente immobile. Lo sapevo anche prima, ma da un po’ di tempo è sempre più palese. Non ascolto praticamente niente di tutto ciò che esce in tempo reale, nei pochi periodi della vita durante i quali l’ho fatto erano appena una manciata i gruppi della contemporaneità da cui mi facevo coinvolgere. Al liceo seguivo la nuova ondata new wave di Editors, Arcade Fire, The Killers, Interpol eccetera. Tra il 2009 e il 2010 seguivo Il Teatro degli Orrori, Brunori, Vasco Brondi e gente così ma sono eccezioni. Io, in realtà, mi sono sempre fiondato quasi esclusivamente su artisti che avevano avuto il picco della loro creatività 10 o 20 anni prima della mia nascita o quando ero troppo piccolo per capirci qualcosa.
Provo sempre una certa ammirazione et invidia per tutti quelli che a fine anno scrivono le classifiche dei loro dischi preferiti usciti nei dodici mesi precedenti: ma come fate ad ascoltare tutti questi lavori? Quel richiamo passivo (inteso come spinto dalla passione) io non ce l’ho. L’idea di ascoltare ogni anno centinaia di ore di musica per la prima volta e poi l’anno dopo ancora e poi ancora è un horror vacui che mi fa girare la testa: nemmeno mi ricorderei di tutti questi dischi, di tutte quelle canzoni, di tutti questi artisti. Li divorerei a lungo andare con una triste superficialità in quella che diventerebbe più una forma di collezionismo che una forma di arricchimento e questa idea non mi piace.
Però penso anche che chi riesce a vivere la musica in questo modo, nel qui ed ora, persegue un bisogno reale molto onorifico. Da un certo punto di vista molto più reale del mio, che invece è filtrato da barriere stilistiche e intellettuali che mi sono costruito da solo. Sono barriere che mi imprigionano in un castello dentro al quale i miei riferimenti sono sempre gli stessi. Diversificati, per fortuna, grazie a periodi della vita durante i quali mi sono buttato all’avanscoperta di tante cose ogni volta nuove. Ma alla fine, me ne sono accorto in particolare durante gli ultimi mesi, sono sempre gli echi del post rock degli U2 e dei REM insieme al cantautorato americano di Springsteen e Dylan a padroneggiare senza soluzione di continuità nei miei ascolti. Ascolto tanti artisti ma in fondo seguo sempre la stessa traccia. Se devo appassionarmi a qualcosa di “nuovo”, probabilmente lo farò con un vecchio disco di Tom Petty che non conosco piuttosto che un nuovo disco di Phoebe Bridgers (peraltro bravissima). È un eterno reverbero dell’adolescenza.
Così oggi per me è davvero faticoso cercare, riconoscere, padroneggiare nuova musica. C’è una spensieratezza che io non ho in quell’ambito.
Poi, va beh, c’è anche il tema della ripetitività, nel senso che con la fine dell’era discografica sento che allo stato attuale noi musicisti viviamo in un simulacro non solo a livello stilistico, ma anche a livello pratico. Viviamo nell’imitazione di un atto, il fare musica, che oggi è del tutto fuori dal tempo. Per dire, ho appena usato l’espressione “dischi”, quanto è stupido? Comunque è un’altra questione.
Mi limito a dire che per me scoprire nuova musica è un atto di concentrazione e fatica, un dialogo che non posso concedere a tutti gli artisti che incontro sulla mia strada: io ho soggezione del tempo e forse non voglio usarlo per ascoltare musica che non so se sia bella o meno. Ma non posso sapere se mi piace o no fino a che non l’ho sentita, quindi è un bel paradosso.
È una specie di strana versione di sindrome di Stendhal, che però si concretizza in un’ansia anticipatoria per un’opera d’arte. Forse il punto è che io percepisco che ogni opera agisce su di me e mi cambia. A volte ascolti un pezzo che ti piace e che diventa parte di te da subito e dopo breve tempo non sai più da quanto lo conosci: ti sembra di conoscerlo da sempre. È esistito un tempo in cui non ho amato Astral Weeks di Van Morrison, Bad degli U2 o The Hollows degli WHY? Anagraficamente la logica vorrebbe di sì, ma è un pensiero che in effetti mi disturba.
Io trovo più sensato pensare che, è vero, non avevo mai ascoltato le canzoni fino al momento in cui le ho scoperte; ma il punto è che le conoscevo già. Come? Boh. Ma è qui il mistero. A volte ascolto cose che non avevo mai sentito ma che conoscevo già da sempre, da prima che nascessi magari.
Probabilmente mi innervosisce ancora l’idea di incontrare di nuovo musica talmente potente da poter influenzare il mio spirito fino a confondere la mia percezione temporale. Bisogna avere soggezione di questo tipo di misteri.
E poi c’è da dire che, spesso, i musicisti sono dei pessimi ascoltatori di musica. Perlopiù il loro gusto è veicolato dal loro strumento anche quando non lo sanno, in una alterazione di tutti i riferimenti stilistici. Per esempio, a me piace Elton John ma nella mia compulsiva ricerca di classic rock dell’adolescenza non l’ho mai approfondito né incontrato molto. Ovviamente perché i giovani chitarristi non si fanno attrarre da un artista basato esclusivamente sul pianoforte.
Diffidate dunque dai giornalisti musicali che sono anche musicisti: non solo non sanno un cazzo ma sono pure convinti di sì.
I migliori ascoltatori e amanti di musica sono persone che non suonano e che possiedono una elevata cultura e curiosità intellettuale. Il prototipo di personaggi che un tempo comprava (coi soldi, sì) album a scatola chiusa solo perché ne leggeva dell’esistenza da qualche parte o per curiosità: quelli erano i veri amanti di musica, altroché. Capite bene, però, che se uno aveva i soldi per comprarsi dischi, non ne aveva più per comprarsi chitarre o amplificatori. Ecco perché per generazioni si è avuta questa netta separazione: da un lato gli amanti di musica (quelli veri) con migliaia di dischi, da un altro i musicisti travestiti da esperti di musica, tipo me, con un centinaio di album, sempre gli stessi, a girare sotto il giradischi, il laser, il mangianastri, l’mp3 o dove volete.
Insomma, a fronte di tutto questo mi sento un menzognero quando mi descrivo come appassionato di musica: sono appassionato di una piccola parte di musica.
Ma ecco, proprio sulla scia della mia menzogna, della mia auto-costruzione di un ruolo che mi appartiene solo marginalmente, voglio concludere nella negazione di quanto detto fino ad ora. Perché come scritto io comunque invidio quelli che ascoltano tanti dischi contemporanei e, perché no, prendere un po’ di spunto male non fa. Conoscere i propri limiti a volte può anche insegnare a superarli almeno in parte. Dunque mi sto sforzando nel cercare di scoprire di più di quanto avviene nella terra musicale del qui ed ora, che dal mio arroccamento mi appare un po’ arida ma che probabilmente nasconde più gemme di quanto immagino.
Mi sono ascoltato Valentine di Snail Mail. Sono finito su questo disco semplicemente facendomi traghettare da Pitchfork. Non conoscevo lei né ne avevo mai sentito parlare. Ma ne scrivevano bene, dunque qualcuno aveva già fatto il lavoro sporco per me. Ho trovato molto di quello che mi piace dell’attitudine americana, il solito revival eighteis in alcuni suoni del rock odierno ma anche tanta attenzione chitarristica. Tra i vari pezzi uno in particolare mi ha colpito tantissimo, Headlock. Una voce pazzesca che sembra ti stia cantando di fianco, una melodia ondeggiante, le chitarre super alternative, fenderose, new wave e quelle note di pianoforte glaciale che entrano ogni tanto. Quando parte quell’armonia ascendente del ritornello, che sale in minore mentre il cantato si è fatto più timoroso e la batteria batte piccoli colpi di rullo è pura poesia. Una canzone che ho scoperto per la prima volta due settimane fa. Ma rieccoci: non l’avevo ancora ascoltata ma in effetti, io lo so, la conoscevo da sempre.