Ho quasi fatto un duetto con Amanda Lear
Una storia improbabile di trashness e perplessità, ammesso che sia effettivamente avvenuta
Allora. Prima serata di Sanremo, il presentatore che per qualche ragione si chiama come il più grande compositore del classicismo settecentesco (a proposito, se scrivete Amadeus su Google ho scoperto che il primo risultato è proprio l’Amedeo ravennese piuttosto che Mozart. Ma in fondo chi è Mozart? Sopravvalutato dai, Amadeus invece Radio Deejay, Festivalbar, carriera in salita alla RAI, gran professionista, ma che gli vuoi dire) annuncia una coppia in gara, quella formata da Ditonellapiaga e Donatella Rettore. Questo ha fatto partire nel mio cervello due diversi filoni di pensiero. Il primo era dedicato al domandarmi chi stracazzo fosse Ditonellapiaga, domanda che, anche a distanza di diverse settimane, sembra non aver trovato una risposta precisa. Il secondo era più una sensazione che un chiaro pensiero. Il richiamo a mettere a fuoco un abbinamento suscitato da questi due personaggi. Qualcosa di famigliare.
Dopo essermi imbattuto in diversi meme di altissima fattura sull’azzardata coppia e aver ragionato con un certo distacco sulla bruttezza immensa del nome d’arte Ditonellapiaga (ma è orribile, ma come si fa? A me fa pensare tipo alle robe che faceva Santa Caterina da Siena, boh), il tutto si è andato assestando nel retro pensiero di una vita mediamente normale in tempi anormali.
Ma questa lampadina mnemonica è rimasta accesa malamente tipo le luci al neon che non riescono proprio ad illuminarsi del tutto e fanno quel bagliore con suono a scatto come se uccidessero insetti.
L’altra sera il tutto si è fuso con un altro ricordo mentre mi guardavo il nuovo Batman al cinema. Come alcuni di voi sapranno, è sufficiente vedere il trailer, il tema di questo nuovo capitolo dell’uccellaccio topo uomo mascherato è Something In The Way dei Nirvana.
Ebbene, ad ogni attacco del pezzo nella pellicola (che in realtà non è una pellicola perché chi cavolo gira in pellicola oggi?) io mi sentivo morire dal ridere, memore di un flash. In un periodo ero spesso in saletta con una mia vecchia band di nome Il Fieno (già altre volte qui citata), e le prove di quelle settimane erano mirate a elaborare un set di una serata tributo ai Nirvana. A dire il vero, ufficialmente, ci eravamo già sciolti da un paio d’anni, ma avevamo partecipato a questa mezza specie di reunion della prima formazione del gruppo perché… non lo so perché. Per giocare direi. Va beh, comunque, tra i pezzi che scegliemmo di fare c’era anche Something In The Way. Avevamo deciso che l’avrebbe cantata Fabio, io ero alla batteria e non so per quale motivo OGNI volta che in saletta lui si avvicinava al microfono e iniziava con “Underneath the bridge” noi scoppiavamo tutti a ridere. Giuro, era una specie di automatismo arcaico. Fabio che cantava (benissimo oltretutto) underneath the bridge era una specie di bomba comica senza che avesse nessunissimo motivo per esserlo.
Ordunque, quel ricordo mi si è insinuato mentre vedevo il tizio con il mantello nero e come già fatto altre volte ne ho approfittato per ravanare ancora nella storia piuttosto movimentata per quanto breve di quella band. Il mio cervello, smosso da underneath the bridge, ne ha approfittato per mettere a fuoco le vaghe sensazioni del duetto Rettore/Piaga, ancora fresche nella mia mente. Ecco quella sensazione di deja-vu: era proprio legata a Il Fieno. Toccava un episodio che, forse non a caso, avevo negli anni praticamente rimosso e che vale la pena di essere raccontato perlomeno per la sua significativa assurdità.
Allora, vado a memoria. Gennaio 2013. Dico gennaio ma poteva tranquillamente essere marzo o febbraio di quell’anno. Non ho ora come ora modo di appurarlo a dire il vero. Con Il Fieno avevamo da poco dato alle stampe il nostro secondo EP I Bambini Crescono (titolo che sinceramente non ho mai apprezzato). Era un periodo durissimo e bruttone per la nostra storia di band, la nostra tenuta umana di individui e soprattutto per la nostra amicizia. L’anno precedente avevamo cambiato batterista. Fabio era praticamente fuggito e questo aveva capovolto molte dinamiche e esacerbato rancori. Con l’arrivo di Momo avevamo trovato nuove energie ma si erano creati casini specialmente logistici. Eravamo un gruppo spalmato tra Busto Arsizio, Milano e Aosta. Non era facile coordinarci. Incredibilmente eravamo riusciti a fare questo disco, nel bellissimo studio valdostano di Momo, senza insultarci troppo tra di noi, ma a riprova delle nostre difficoltà comunicative ricordo che di una canzone di nome L’età Del Bronzo tutti noi sentimmo il ritornello solo dopo la sua registrazione in studio. Insomma, scrivevamo a pezzettini, a coppie, inviandoci file, rifinendo in studio, ignari dei risultati finali fino all’ultimissimo momento. Non eravamo più coesi e quando cercavamo di esserlo si finiva per litigare.
Ma le cose si portano a termine e prima di prendere qualsiasi decisione sul nostro futuro avevamo deciso di finire quell’EP. Ci eravamo riusciti. Aveva parecchi difetti ma se non altro era una prova di resilienza (la musica a ben vedere lo è spesso). Dopo l’uscita del disco iniziò quel periodo in cui si dovrebbe essere carichi a mille per riprendere dal vivo. Non lo eravamo: eravamo esausti, della band e l’uno dell’altro. Però, strenuamente, provavamo a strutturare un nuovo set convincente da portare in giro nei peggiori locali di caracas. Fu in quei giorni che, da colei che all’epoca era la nostra manager, arrivo una comunicazione inaspettata: ci cercava Amanda Lear. La musa di Dalì? L’ex fidanzata di David Bowie? La modella della copertina di For Your Pleasure dei Roxy Music? Il simbolo dell’ambiguità sessuale dei movimenti contro culturali degli anni Settanta?
Questa persona cercava un gruppetto new wave italiano sconosciuto in crisi e a un passo dello scioglimento? Aveva tutte le caratteristiche per essere una grande storia di redenzione donata, tipo un femmineo Gesù che folgora la rock band sulla via di damasco. Non lo sarebbe stata.
Ma andiamo con ordine. Pare che Amanda stesse lavorando su una operazione di marketing piuttosto in voga all’epoca. Per infilarsi in vibes nuove e rimescolare un po’ le carte della sua immagine stava prendendo in considerazione duetti con gruppi semi-sconosciuti in giro per l’Europa, per un effetto del tutto accostabile all’attuale Rettore/Piaga.
Qualcosa di simile era stato fatto anche da Battiato pochi anni prima, quando aveva coinvolto l’emergente band hard rock tutta al femminile cagliaritana Mab al suo disco Il Vuoto, con tanto di duetto nella title track e singolo di punta. Le aveva addirittura portate in tour con lui. Insomma, in quel periodo a volte si facevano cose del genere.
Evidentemente, rispondevamo ai requisiti per questa operazione. Eravamo un gruppo new wave con qualche blando riferimento ad un maledettismo sciapo, ma al tempo stesso eravamo anche pop. Non ci conosceva un cavolo di nessuno ma avevamo partecipato ad MTV New Generation, elemento che ci aveva investiti di una sorta di “oblio ufficializzato” che probabilmente ci differenziava appena un filo da un gruppo dell’oratorio. Il nostro anonimato di base, come per l’operazione battiatesca, restava certamente una delle caratteristiche essenziali.
Il management della Lear proponeva una specie di duetto commissionato. Se ben capii, ma sinceramente non ho mai capito molte cose di questa storia, Amanda voleva fare lo stesso duetto della stessa canzone anche con altri gruppi o artisti emergenti di altre parti d’Europa.
Dopo lo stupore iniziale per una richiesta così bislacca, iniziammo subito a dividerci tra interventisti e neutralisti. Amanda Lear era allo stesso tempo un simbolo assoluto della disco-music trash e un simbolo epocale dell’art rock alternativo. Abbinarsi musicalmente a lei poteva voler dire o lasciarsi coinvolgere in una puttanata giga atomica o riuscire a tirare fuori qualcosa di interessante con la giusta dose di follia e decadentismo.
Al di là di Dalì e David Bowie, l’elemento del passato della Lear che ci ispirava di più nella decisione era il suo duetto del 1988 con i CCCP. Probabilmente, per un gruppo come noi, un duetto con lei avrebbe in qualche modo potuto tracciare una connessione diretta tra quegli anni e i nostri; l’abbinamento implicito sarebbe stato direttamente con Lindo Ferretti and co. più che ad Amanda di per sé, il che sarebbe stato un piccolo colpo di genio da parte nostra. Avrebbe avuto un senso artistico. Sì insomma, l’idea sembrava talmente stupida da contenere una particella di illuminazione.
Ma per prendere la decisione finale dovevamo ascoltare la canzone in questione. Questa era già edita, nella versione originale. Era un pezzo dance o electropop in lingua francese che si chiamava La Bete et la Belle. Cercatela, se ne avete il coraggio. La musica praticamente sembrava venuta fuori da una session di sound designing per la colonna sonora della pubblicità di un’auto sportiva.
Il testo era un’accozzaglia di frasi totalmente slegate l’una dall’altra che ruotavano attorno ad una storia su una linea erotica o qualcosa di simile, e a rafforzare il messaggio taoista dell’opera c’era il video, composizione filmica degna di Truffaut incentrata su una settantenne su di giri che nella stanza di un hotel ammazza il tempo al telefono nell’alternanza di immagini di modelli palestrati e mascherati di diversa origine. Una roba che se entra uno per caso nella stanza mentre stai guardando un po’ ti viene da giustificarti ecco.
Va beh, una volta visto il capolavoro gli appigli intellettuali che potevano dare un senso all’operazione vennero a scemare. Tuttavia le posizioni nella band restavano contrastanti. Qualcuno suggeriva che avremmo dovuto comunque provare a sfruttare l’occasione magari tirando fuori almeno il lato ironico della faccenda. Qualcun altro (io) suggeriva che anche cancellare per sempre le mail e prendere tutto come un brutto sogno potesse essere una buona idea.
Vinse la curiosità. Uno dei sentimento di fondo era “proviamo sta cafonata” e ci affidammo perlopiù a quello. Il management della Lear ci mandò la voce di lei, separata dalla base: noi avremmo dovuto registrarci il pezzo tutto attorno secondo il nostro stile e rimandare il tutto indietro.
Non era finita qui: per non farci mancare nulla il progetto era adattato linguisticamente su misura della nostra provenienza geografica. La canzone, che come detto era originariamente in francese, era dunque stata tradotta in italiano con solo alcune espressioni lasciate in lingua originale. Ma tradotta tipo da google translate (e cantata sostanzialmente come il corrispettivo lettore automatico).
Vado a memoria, il testo della strofa recitava (giuro che lo ricordo dopo quasi 10 anni): «Nella notte, tuo mondo nella notte. La fantasia, la tua priorità. Dopo “le club”, da sola in albergo. Sexe au téléphone con la bete. Io non sono la belle». Puro Joyce insomma.
Amanda scusami e non denunciarmi perché non ho una lira (non sono mica greco). Ovviamente non intendo sparare a zero sull’opera della Lear, che evidentemente aveva pure i suoi motivi per fare roba del genere. Ma sto riportando senza filtri le sensazioni che il me del 2013 ebbe nell’immedesimarsi parte di questa operazione.
La canzone originale faceva venire i brividi, ben prima di Mahmood e Blanco, la versione italianizzata era se possibile ancora più priva di senso. Ci mettemmo comunque lì a cercare di capire se, strumenti alla mano, il tutto poteva venire tramutato in qualcosa che non ci facesse vergognare nell’incontrare i conoscenti per strada.
Mi sono chiesto perché non lasciammo perdere subito. Come detto i rapporti all’interno del gruppo non erano propriamente ottimali. Non eravamo mai d’accordo su niente, il poco che parlavamo tra noi era sormontato da macigni passivo aggressivi che rischiavano di schiacciarci.
Nessuno di noi aveva il reale desiderio di fare questa cosa credo. Ogni buona ragione somigliava a un dovere. Ogni no somigliava a un capriccio, ogni sì somigliava a una provocazione, ogni “vedi te” somigliava a un no. Nessuno voleva assumersi la responsabilità di far deragliare gli umori di tutti, sceglievamo tutti sempre di non scegliere.
Ma se una band sa di essere in crisi tanto vale fare qualcosa che alimenti la crisi. Se devi far sciogliere un gruppo, tanto vale farlo col botto: con un duetto con Amanda Lear.
Ci mettemmo a cazzeggiare attorno ad una roba in Mi minore che non ho mai capito se fosse del tutto appropriata con la tonalità che ci avevano inviato della voce della Lear. Trovammo l’arrangiamento meno peggio possibile, ma credo che la suonammo anche in saletta il meno possibile. In pratica ci venne una specie di scopiazzatura di Bohemian Like You dei Dandy Warhols con le chitarre che avrebbe fatto Nile Rodgers se il destino avesse scelto di farlo nascere nella frazione di Cascina Regusella del Comune di Uboldo (VA).
Poteva anche star su, così come possono star su certi tetti di lamiera e amianto di antichi casolari abbandonati, sotto i quali tutti sanno che non si deve andare a giocare.
Ora veniva però la parte più complessa: avremmo dovuto consegnare il brano finito e nessuno sembrava avere voglia di registrarlo. Dopo avere appena registrato il disco, le energie per passare insieme delle ore in studio erano nulle. Peraltro c’era un altro aspetto. Non era certo detto che avrebbero accettato il pezzo e avremmo dovuto valutare se era il caso di spendere i soldi dei nostri magrissimi fondi in un azzardo del genere; i portafogli delle band sono perennemente in default.
Per un tendenza al risparmio e forse per una inconscia attrazione verso il fallimento dell’operazione, decidemmo (o decisi?) che il modo migliore per rendere giustizia a questa nuova pietra miliare della musica mondiale era darle una forma a metà tra il sintetico e il low-fi. Dell’aspetto sintetico si sarebbe occupato Momo, concentrandosi sulle ritmiche e su alcuni suonini di synth. Io mi lasciai prendere da un delirio di autarchia artistica e scelsi di registrare le mie chitarre direttamente a casa mia, con un registratore digitale che di solito si usa per registrare le conferenze, in un ampli che manco al saggio della scuola di musica avrei potuto usare. Inutile dire che facevano veramente schifo e probabilmente pure io in fondo (o anche in superficie) lo sapevo.
Anche Ale registrò il suo basso da me, quello in effetti suonava un po’ meglio ma manteneva una patina polverosa che non era adatta ad un pezzo del genere. L’unica cosa che era registrata dignitosamente era la voce di Gabri, che se non erro si limitò a fare dei cori. Mandammo tutto il materiale a Momo, che fece del suo meglio per tirare fuori qualcosa di assennato. Lui è sempre allegro, rispettoso e mai vittima della facile accidia che contraddistingue il musicista medio. Il suo commento finale sul risultato fu che era tutto “incredibilmente simpatico”: nel suo linguaggio significava che era una merda insindacabile e senza appello.
Mentre mandavamo il file con la canzone al management di Amanda Lear ci sentivamo come probabilmente si sentiva Unabomber quando inviava le lettere ai giornali.
Non so se temevamo più che la cosa non andasse in porto o se temevamo di più che in porto ci andasse. Magari con uno spettacolare naufragio ad un passo dal molo, in un’acqua grigia e catramosa.
Inutile specificare che in pochi giorni ci risposero che no, non se ne faceva più niente. Le nostre reazioni furono un misto di sollievo e delusione. Eravamo liberi dallo spauracchio di un giuogo del trash che ci avrebbe certamente tormentati a vita. Ma al tempo stesso, ci era preclusa la possibilità di vantare per sempre a curriculum una connessione con una icona del Novecento.
Fortunatamente, nessuno sentirà mai la canzone descritta in queste righe. Il fatto che la bruttezza inenarrabile di quel pezzo ci richiedesse in qualche modo di farne ugualmente un simbolo delle nostre aspettative come gruppo fu la ciliegia finale del mio logoramento. Da quando la band esisteva avevamo fatto buona musica in alcuni momenti, ma ero convinto che a quel punto non potessimo più farlo. Pochi mesi dopo uscii.
Non ho mai sentito nessun duetto di Amanda con nessun gruppo da nessuna parte del mondo sulla sua La Bete et la Belle. Dunque alla fine aveva desistito anche lei per un progetto così improbabile? Forse sì.
Ma questa è solo l’ennesima stranezza di una storia misteriosa, talmente misteriosa che a distanza di anni mi si insinua un dubbio: ma quello era davvero il management di Amanda Lear?