Questa settimana partiamo da questa canzone giga di Apash 2012, aka Fabio, dal suo disco capolavoro Blacker del 2012. Non cercatelo su Spotify: non c’è. Dov’è? Boh.
Chi è Fabio? Difficile dare una risposta esaustiva. Fabio è un rabdomante, un manouche, un filantropo del cuore, un attore, un temporale, una popstar, uno dei Nirvana, una housestar, un ladro, un fantasma, un personaggio di Tex, un poster, un coltello, un salatino al grana, un pittore, un nemico di Bill Gates, una finkbrau, un detective, un impettito, un gol dell’Atalanta. Un giorno, se lui vorrà, vi dirò di più. O forse no.
Ad ogni modo questa settimana voglio parlare random di alcune cose musicali che mi hanno colpito negli ultimi tempi, che sono sia un po’ tristi che un po’ felici. Ci sono vari spoiler quindi nel caso siano argomenti che vi interessano attenzione! Ah per qualche motivo sarà citato ripetutamente Bob Dylan, il che va sempre bene.
Cominciamo.
È uscito questo disco tributo a The Velvet Undergroud and Nico, I’ll Be Your Mirror.
Non potevo sperare in nulla di più pazzesco: un lungo omaggio a uno dei miei dischi preferiti reinterpretato da alcuni dei miei artisti preferiti. A leggere la lista non ci si crede: Michael Stipe, Matt Berninger, Andrew Bird, Kurt Vile, St. Vincent e Iggy Pop…tra gli altri! Cioè praticamente solo nei primi tre nomi c’è metà della mia vita. Ascoltarlo è stato un viaggio totale. Intanto perché è stato effettivamente un viaggio, ero in macchina. Poi perché mi ha colpito riscoprire un disco che conoscevo così bene ripensato dagli artisti figli della cultura che ha generato. Non solo un percorso emotivo ma anche cerebrale, in cui ogni elemento, dagli arrangiamenti al modo di pronunciare le parole, assume svariati significati, in un equilibrio tra passato e al presente.
E mi sa che era proprio questo l’intento della vera mente dietro l’operazione, Hal Willner, che ha curato e diretto tutto. Ecco la parte triste: Hal è morto l’anno scorso (sì, di quello) e questa è la sua ultima opera, postuma. Io non lo conoscevo bene prima di apprendere della sua morte, sapevo solo che era stato uno dei curatori della colonna sonora di The Million Dollar Hotel, un disco con cui ho familiarità, e che era stato uno stretto collaboratore dello stesso Lou Reed. I tributi, tipo questo, erano la forma di album che gli era più congeniale e ne aveva già fatto diversi. Non è un modo fantastico di fare un disco? Prendere artisti diversi e coordinarli a reinterpretare un’opera già nota. Più o meno dire come fanno i direttori della musica classica. Un po’ di anni fa Mario Luzzatto Fegiz disse che il futuro del rock era nelle cover e fu parecchio preso a pernacchie per questo, invece io la trovai una cosa molto acuta: un’era artistica da un momento in poi sopravvive nella sua classicizzazione, e quindi riproposizione, e quindi rifacimento. Io e i Soviet Malpensa una volta abbiamo teorizzato l’intero rifacimento di Zooropa degli U2. Per ora ci siamo fermati solo qui. Come andrà a finire?
Ad ogni modo, un sacco di piccoli elementi sono strafichi in questo tributo. Michael Stipe che rifà Sunday Morning e ci mette il basso di Walk on the Wild Side per esempio. Un colpo di maestro. E nel mentre Bill Frisell suona una assurda parte di chitarra midi che rimanda un po’ allo xilofono originale del pezzo. Run Run Run di Kurt Vile sembra scritta ieri e I’m Waiting for the Man ricantata da Berninger sostituisce al caos fisico new yorkese della versione originale il caos tutto cerebrale, ansiogeno ed egoriferito dei giorni nostri. Andrew Bird fa una roba incredibile con Venus In Furs e in pratica la porta in oriente.
La prima parte del disco è la più bella, paradossalmente mi hanno convinto un po’ meno sia gli episodi che ricalcano troppo le originali sia quelli che si discostano eccessivamente. St. Vincent che imbastisce un pretenzioso picnic concettuale con All Tomorrow’s Party mi è un po’ dispiaciuto, ma probabilmente sarebbe piaciuto a Lou Reed.
I Fontaines D.C. con The Black Angel's Death Song rifanno in pratica quella del disco ma mantengono quell’inflessione vocale nel verso finale che è un po’ lo zenit del pezzo e ci sono andato a nozze. Diverso il caso di Heroin di Thurston Moore e Bobby Gillespie. All’inizio pensi che suona un po’ uguale ma poi ti scoppia la testa quando realizzi che un ex Sonic Youth sta risuonando di fatto il big bang di partenza di sé stesso, reinterpretandolo un po’ come una partitura…ossia l’esatto opposto del concetto di noise rock. Infine Iggy Pop che fa rumore per 7 minuti su European Son senza aggiungere né togliere nulla alla cacofonica versione originale fa un po’ la figura dello zio scemo a mio avviso ma probabilmente è ciò che andava fatto.
Bello bellissimo e ora ho voglia di tributi.
Se qualcuno vuole registrare un bel disco tributo a qualche artista insieme a me non esiti a chiedere!
Dylan ha annunciato la ripresa dei suoi appuntamenti dal vivo, che proseguono senza tregua dal 1988 sotto il generico nome di Never Ending Tour. Ne sono stato felice perché dopo l’uscita di Rough and Rowdy Ways e quello strano concerto/evento in streaming ho pensato potesse fermarsi definitivamente. Quello che mi ha fatto impressione, però, è che questa volta la dicitura Never Ending non figura da nessuna parte, e anzi per la prima volta è prevista una data di fine tour: il 2024. Che sia davvero l’ultimo tour? Ok, Dylan è ottantenne, diciamo che non serve un genio per capire che è quasi impossibile fare ancora tanti anni in giro per il mondo, però mi ha colpito davvero. So che sembra ridicolo ma mi domando come si senta lui, visto che girare in tour sul palco, nell’ombra, dietro la sua tastiera, è la sua missione di vita. Però c’è un elemento interessante, per la prima volta non appare nemmeno l’aggiunta “and his band”..un tour acustico? Lo scopriremo. Intanto la locandina del tour è fighissima nella sua gotica assurdità.
Ho visto qualche video del ritorno dal vivo degli Stones dopo la scomparsa di Charlie. A differenza di alcuni pareri che ho letto in giro, io trovavo doveroso il loro ritorno sul palco. Fanno parte di quella categoria di musicisti per cui non esiste la separazione tra vita e “carriera”. Non c’è alternativa al palco. Come i bluesman di 90 anni che ancora suonavano per lo proprie comunità, è così che Keef concepisce la musica. Gli amici se ne vanno, ma la vita va avanti, non ci si ferma. È giusto.
Però questi video mi hanno messo tristezza. L’impressione è stata quella di vedere Mick e Keith sul palco da soli. Prima di tutto perché, molto stupidamente, non ho mai considerato Ron Wood uno Stones esattamente “come gli altri”…anche se è nella band dal 1974. Probabilmente solo perché non mi è mai stato granché simpatico e nei dischi davvero storici degli Stones lui non c’era. Per il resto quello che manca è…beh, Charlie. Mi sembra che Steve Jordan (che è un batterista enorme) si sia rifatto più alle versioni in studio per riarrangiarle. Qua e là piazza degli omaggi ai fill e ai colpi-di-rullo-senza-hat però sentire gli Stones con un suono così “dritto”, così poco sbilenco, suona davvero strano. Quando suona alla Jordan ti ricorda che Charlie non c’è, quando suona alla Charlie ti emozioni e poi ricordi che in realtà non è lui. Insomma, tosta.
Bellissimo il documentario su Nina Simone, “What Happened, Miss Simone?” C’era un periodo in cui ascoltavo molto Nina, quindi l’ho guardato con parecchio trasporto. Qui la parte triste è più la prima perché la povera Nina ha fatto un casino dietro l’altro ed è stata a tanto così dal farla finire molto male, ma al contrario gli ultimi anni della sua vita sono una bellissima storia di redenzione, di cura e di consapevolezza.
Tra una pausa pranzo e una notte mi sono poi sparato anche un altro documentario pazzesco, quello che racconta la carriera dei Greatful Dead attraverso il punto di vista di Bob Weir. Avevo una lacuna gigantesca su di loro, non sapevo un cavolo di niente tranne che facevano le super jam e che per un periodo Dylan aveva cercato di convincerli a farlo entrare nella band perché si era stufato di essere Dylan.
La parabola di Jerry Garcia è molto triste, ma la storia di vita di Weir è meravigliosa e piena di ottimismo. Gli anni recenti della sua vita, da soli, sono la trama già scritta di un film assurdo.
Curiosamente, pur essendomi piaciuto moltissimo il racconto della loro evoluzione, non riesco a farmi travolgere dalla loro musica. Ho provato a orientarmici, ma sembra davvero troppo tradizionalmente americana e al tempo stesso intricata per me. Se qualcuno di voi sa aiutarmi ad approcciarmi ai Greatful Dead aspetto un piccione viaggiatore fatto di LSD.
Ieri sera andavo in studio e ascoltavo Virgin Radio. Odio Virgin Radio ma passava Neil Young e sembrava avere capito chi sono (ah-ah). Era proprio uno speciale intero su Neil Young, in particolare su un disco dal vivo di un concerto alla Carnegie Hall di New York del 1970. Un Ringo o un Andrea Rock a caso ha raccontato la storia di Ohio, spiegando che Young la scrisse (per Crosby, Stills, Nash & Young) dopo la tragedia della Kent State University del 1970, in cui 4 studenti che manifestavano morirono negli scontri a fuoco contro la polizia. La strage è del 4 maggio: a giugno la canzone era uscita. Mi ha colpito questa urgenza e ho pensato davvero che mi piacerebbe scrivere e buttare fuori continuamente, come un artigiano che espone le sue cose in vetrina. Qualcosa che nasce e può comunicare istantaneamente.
Nel 1970 era un bel casino far uscire un pezzo in fretta: lo scrivi, ne parli alla casa discografica, prenoti uno studio, lo registri, lo stampi, lo distribuisci, la gente lo compra. Lo facevano tutti gli artisti.
Oggi è potenzialmente una scemata: la scrivi, la registri, la produci, la metti online. Però ci mettiamo 2 anni a fare i dischi. Boh. In realtà c’è chi lo fa ancora mi risulta, i ragazzetti trap con Soundcloud. O Soundcloud è per i vecchi? Questa domanda è da vecchi?
In ogni caso il suono della Martin acustica in questa versione dal vivo di Ohio mi ha inchiodato al sedile. Assurdo. Ho cercato questa Martin sui mercatini musicali: 3000 euro. Ok.
E infine, è uscito il nuovo singolo dei War On Drugs e non riesco a capire come Adam Granduciel riesca a fare quel che fa. Non trovavo probabile sentirlo tirare fuori altre gemme dopo LIVE DRUGS. Pensavo che quel live segnasse un prima e un dopo. Evidentemente mi sbagliavo: questo singolo, I Don't Live Here Anymore, è talmente potente che sembra esserci sempre stato. Per qualche motivo è pieno di citazioni di Dylan, a partire dal primo verso: “I was lying in my bed, A creature void of form”, una citazione di Shelter From The Storm.
La canzone sembra essere stata catapultata qui davvero da un’altra parte. Fa venire voglia di volare da terra qualche metro. L’ho ascoltata ripetutamente un giorno in cui avevo deciso di andare a correre, dopo qualche settimana di stop. Saranno passati dieci minuti e si è messo a piovere. In breve tempo è arrivata una pioggia epocale, secchiate, una cascata per tutta Milano, tempesta perfetta, alligatori. Adam cantava “Time surrounds me like an ocean, my memories like waves”, e io iniziavo a sentire l’acqua nelle scarpe. Cantava “I need a chance to be reborn” e non vedevo perché l’acqua mi entrava negli occhi ma continuavo a correre. Con il telefono fradicio (da quel giorno, quando gli gira, mi fa degli scherzi) continuavo a rimetterla da capo perché pensavo che ci fosse una correlazione netta tra la canzone e la pioggia. Era la canzone a far piovere? O era lei che avrebbe fermato la pioggia? Sono tornato a casa che mi sembrava di avere fatto una nuotata. Dove e quando, lo ignoravo.
Ehi un momento, ma qui la sadness dov’era? Non c’era.
Happiness 7 - Sadness 6
Beccati questa mondo.
Ciao amici,
Brennekedo