Ho inserito qualche parola chiave per descrivere Buona Miseria in un’intelligenza artificiale e queste sono alcune delle immagini create dall’algoritmo. Belle vero?
La canzone, che esce tra una settimana, era musicalmente già dall’inizio una roba diversa rispetto al mio solito. Quando cominciai ad abbozzarla la feci girare attorno ad un riff di tastiera che mi restituiva un’ambientazione medievale. Si sviluppò poi in un groviglio di parti sintetiche che sembravano un po’ giocattoli che suonavano tra loro quando nessuno guardava, tipo Toy Story. Per divertirmi mi inerpicai in una strana costruzione dance EDM. In quel periodo mi piacevano Tycho, Kygo, Avicii, Deadmau5, roba del genere. Quindi creai un crescendo piuttosto stereotipato su quello stile ma senza inserire mai una cassa in quattro, come sarebbe stato logico fare. Una volta che avevo questa ambientazione giocai con uno strano synth di FL Studio per trovare un riff o un refrain interessante che sbucasse dopo il crescendo. Ci riuscii ma non ho nessunissimo ricordo di come lo creai. So solo che ad un certo punto era lì, un suono che sembrava una specie di verso di un animale alieno robot. Stava bene in un rave ma anche in qualche colonna sonora sci-fi.
A quel punto volevo vedere se riuscivo ad integrare quella cosa lì con una scrittura più confidenziale. Credo che assemblai il testo della prima parte durante una specie di ritiro montano estivo ma non ne sono sicuro. A mostrarmi la strada giusta fu un giro di chitarra acustica che faceva da contraltare alla meccanicità elettro della parte dance. Fino a quel momento il testo aveva qualcosa ma era ancora tutto molto fuori fuoco. Alla fine tutto somigliava a qualcosa degli “WHY?” di Yoni Wolf, uno dei miei gruppi preferiti in assoluto.
Poi la canzone rimase a sedimentare per diverso tempo. Pareva non essere mai il suo momento e non me ne preoccupai. In effetti non arrivò mai la calcolata decisione di finirla. Si finì da sola, perché decisi di proseguirla incollando frammenti vocali del tutto staccati dalla melodia iniziale. Era un collage.
Tutti i versi erano dominati da un’atmosfera di frustrata claustrofobia. Nella mia testa erano riflessioni più o meno oniriche sul mio rapporto con la musica, nella sua doppia opposta natura di sfida da rinnovare e rifugio a cui tornare. Erano una specie di cut up. Ma più andavo avanti in questo affresco di secchiate di vernice scagliate sulla tela più la natura schizoide del pezzo prendeva forma. Nessuna melodia vocale si ripeteva, le parole parevano slegate e non si capiva se esistesse un ritornello o meno. Ma più la struttura si faceva confusa e più il significato si faceva chiaro.
Gli accordi del pezzo erano solo tre ripetuti all’infinito, eccetto che per un breve inserto surreale. Si stava trasformando in un pezzo che smontava gli elementi del pop per ricostruirli in uno stile curiosamente prog.
La seconda parte di canzone, che è in pratica una canzone a parte, arrivò tutta d’un botto un po’ più avanti. Qui l’intensità scendeva di colpo e la narrazione diventava più diretta. Dopo aver lasciato informazioni più o meno sparse per tutto il pezzo è come se il narratore prendesse tutto e dicesse “Ok adesso vi dico esattamente a cosa mi riferisco”. Nuovo crescendo e in uno dei due o tre momenti che somigliano di più ad un ritornello ritorna il tema della casa. Il finale sgorgò da solo mentre improvvisavo melodie. Era originariamente un coretto che avevo ficcato nel bel mezzo della canzone, ma messo alla fine diventava l’emblema di tutto. Era un momento corale ma difficile da cantare collettivamente (per via della tonalità) e per questo era intonato volutamente malino, un po’ ubriaco, come da qualcuno che prendesse in giro la canzone stessa.
Avevo quasi tutto, ma qualcosa non mi convinceva: l’inizio. Non c’era attacco, non c’era emozione. Quindi mi misi di nuovo ad aspettare. Fino ad un pomeriggio.
In quel periodo mi era stato chiesto di tenere un corso di giornalismo in una strana scuola. Dico strana perché era veramente strana, seguiva un metodo tutto suo, di quelli una po’ olistici, mentalisti e messi su con principi di psicologia opinabile. Tra le prima stranezze ci furono riunioni per i docenti tenute in cortile. Trenta, quaranta persone in cerchio per ore in questi incontri infiniti nei quali sostanzialmente non si parlava di nulla se non dell’ego di chi aveva fondato sto posto. Mi annoiavo a morte e come se non bastasse era ottobre e iniziava a fare un bel freddo. Per non buttare via il tempo durante uno di questi incontri mi misi scientemente ad arrangiare la canzone nella mia testa. Pensai all’intro del pezzo e ricordo benissimo che in quel cortile mi venne l’intuizione che è poi rimasta. L’idea era di tenere le toniche basse in battere sull’uno e sul tre e gli accordi completi in tutti i colpi in levare subito dopo, in un andamento che praticamente era mezzo reggae. Pensai che però che sarebbe stato bellissimo tenere gli accordi in levare solo con la triade di FA maggiore, con solo le basse a suggerire lo spostamento al RE minore e al SI bemolle. Era un metodo che alle tastiere avevo già sfruttato altre volte (per esempio in una canzone di nome Lasciarsi alle spalle).
Nel folk americano questo stratagemma è usatissimo, soprattutto chitarristicamente. Si lascia sempre premuto l’accordo maggiore che dà la tonalità e sotto si variano solo le corde basse per cambiare gli accordi. Le combinazioni che si possono fare senza che il tutto inizi a suonare armonicamente appeso ad un filo sono limitate ma il risultato ha sempre una resa emotiva altissima, molto più che spostandosi da una triade all’altra. Pensai che potesse funzionare e a casa lo provai. Era bello ma la figata definitiva venne dal suono di synth che trovai. Solo di recente ho capito che a rendere speciale quel suono è che su ogni attacco sembra che per un microsecondo ondeggi una settima maggiore fantasma. Nell’accordo di FA maggiore aleggia sempre un leggerissimo MI che non si capisce se c’è, c’è stato, se era vero o lo stai immaginando. È quell’accordo che usualmente si chiama major seven ma che a me piace chiamare con il suo nome “alla jazz” ossia Δ, delta.
Con l’intro finito la canzone era pronta.
Quando ho portato il pezzo a Marco Olivi per il mixaggio temevo che mi mandasse a fanculo (tentazione che ha avuto delle volte, ma non per quella canzone), perché le tracce erano tantissime, alcune duravano magari due secondi e basta. Erano forse, non lo so, tipo 160 tracce da mixare. E invece magicamente tutto si è impostato subito benissimo. Marco ha capito in particolare immediatamente come trattare la voce, che di fatto nell’idea erano più voci provenienti da livelli diversi della mente. Il colpo di coda l’abbiamo dato in studio direttamente in fase di mixaggio, quando Marco mi ha attaccato una sua telecaster alla scheda audio e mi ha fatto risuonare al volo un arpeggio che ritenevamo fondamentale ma che non riuscivamo a far risaltare. Pronti via: è molto figo quando succede così, senza rifletterci molto.
Il suono di questa canzone è qualcosa che sento vicino a me perché non l’ho costruito, l’ho solo suonato. È un accumulo di elementi proveniente da generi diversi che insieme sono un’armonia fatta di contrari. Si è creato da sé, come il mare che porta i detriti. Come il pensiero.