Nel marzo del 2014 mi trovavo in un limbo. Il massacrante tour italiano per supportare il mio primo EP durava ormai da otto mesi praticamente senza pause.
Brenneke EP era uscito nel settembre 2013 e lo stavo presentando in una serie di concerti che aveva preso il via ben prima della sua effettiva pubblicazione.
D’accordo con la Varco, la mia etichetta dell’epoca, il tour era partito dalla Sicilia per risalire la penisola, una scelta da pazzi considerato che al di sotto di Napoli, nonostante tutto quello che era successo negli ultimi tre anni, non avevamo mai suonato e non possedevamo nemmeno una vera e propria copertura di booking. Nel sud Italia avevamo poche garanzie e di conseguenza il tutto poteva risolversi in date di inizio tour poco efficaci a livello di pubblico, con possibili ripensamenti (dei promoter, non certo nostri) su altre date già fissate altrove. Cominciammo con due concerti piuttosto tiepidi a Catania e Augusta, per spostarci poi a Palermo e chiudere con una data clamorosa a Cefalù, che sostanzialmente fu il nostro lasciapassare per tornare in Sicilia qualche mese dopo in posti da ben altra capienza.
Non era il mio primo tour ma fino a quel momento era senz’altro il più intenso. La canzone di punta di quella mia fase era diventata, praticamene per acclamazione, Ragnatele, tanto che a partire dalla fine di settembre il tour stesso era stato ribattezzato “Ragnatele Tour” (prendendo il posto dell’autoironico ma ben meno efficace “Cosa ve ne fate Tour”). Mi ero parecchio sorpreso perché alla sua scrittura avevo pensato distintamente che tra tutte le mie canzoni sarebbe passata in sordina, si trattava sostanzialmente di una lunga strofa senza ritornello eccetto per quell’apertura melodica nel finale. Non proprio costruita per diventare uno standard da top ten italiana. Invece, sera dopo sera, la canzone dimostrava un potenziale inatteso. Nelle prime scalette era posizionata all’inizio.
Poi iniziammo a ritrovarci a suonarla in apertura e in chiusura. Ad un certo punto la mettemmo esclusivamente in chiusura. All’epoca per quel pezzo suonavo la tastiera con la mano sinistra e note aperte alla chitarra con la mano destra. Si era fatto un passaparola su questa caratteristica e complice qualche video su YouTube si creava sempre un bel momento quando il pubblico capiva che la canzone stava per iniziare.
Ora di marzo avevamo già toccato un sacco di posti in cui eravamo già stati negli anni precedenti.
Stavo iniziando a pensare che la mia carriera doveva fare un qualche tipo di salto. Solo, non sapevo verso dove. Dovevo fare un disco “come gli altri”, squarciando quel velo di amichevole stranezza che mi portavo dietro? Dovevo convertirmi ad un suono più radiofonico provando ad allargare la mia platea? Dovevo spostarmi verso coordinate ancora più criptiche?
Una sera di marzo, a Carpi, dopo il concerto sbucò in camerino Tommaso Cavani. Altissimo, vestito come il domatore di un circo ambulante, era tornato a trovarci dopo un paio di tour e vederlo faceva sempre piacere. Ci eravamo conosciuti durante il mio primissimo passaggio in Emilia nel febbraio del 2009, in un minuscolo circolo Arci che sbucava come per visione tolkeniana nel bel mezzo della campagna; quella sera ci stavamo a malapena io e il fonico, figurarsi il pubblico. In mezzo al chiacchiericcio Tommaso aveva apprezzato il concerto e ci eravamo sempre tenuti in contatto.
Anche la serata del Ragnatele Tour gli piacque; era uscito matto per il campionamento dell’intervista di Paolo Villaggio del 1975 sul finale di Camden e mi consigliò di alleggerire le parti elettroniche (cosa che ora dell’estate in effetti avrei fatto). Ci raccontò che stava lavorando alla produzione del tour estivo di Ligabue e lo stesso Luciano aveva espresso il desiderio di avere due aperture per San Siro che provenissero dal mondo indipendente. Uno, già dato abbastanza per certo, era Brunori SAS. L’altro slot era in forse, si erano già fatti un po’ di nomi ma Tommaso veniva per proporre, ufficiosamente, l’opportunità a me. Ero onorato ma la mia risposta non era così scontata. Aggiungere una data in più non era un problema, ma c’era il concreto rischio di creare un putiferio. Sì perché negli anni di grande distacco tra mainstream e alternative un gesto del genere poteva somigliare solo a due cose: una provocazione o la punta dell’iceberg di un moto di svendita di sé stessi. Era un tuffo troppo profondo nella piscina del nazionalpopolare. Nel mondo dei musicisti si percepiva che la distanza tra i due universi si stava accorciando e che tutto stava modificandosi. L’unica domanda era: chi avrebbe avuto il coraggio di rischiare la faccia per primo?
Era un’estate di grande cambiamento ed evidentemente ci ero completamente in mezzo.
Io e Tommaso ci riproponemmo di sentirci nei giorni seguenti. Una risposta andava data alla svelta ma avevo come la percezione che al mio posto anche altri avrebbero voluto prendere tempo.
La mattina seguente, dopo un pranzo in una trattoria di Castel Maggiore, chiamai Brunori. Lui rispetto a me era di tutt’altro avviso. Dopo l’uscita de Il cammino di Santiago in taxi aveva già capito tante cose sull’immediato futuro e non temeva le critiche. «Eduzzo ma se non lo facciam noi chi lo fa?». Eh chi lo fa?
Era un po’ più facile per Dario. Nonostante gli scenari a tratti quasi lo-fi della prima parte della sua carriera, era sempre andato nella direzione di comunicare a tante persone. Da un certo punto di vista quella di San Siro era il genere di opportunità che aveva inseguito per tutta la vita. Ed anzi, lui aveva già spinto la cosa ancor più in là: oltre al Meazza avrebbe fatto anche l’Olimpico di Roma.
La mia posizione era un po’ diversa. Intanto dopo tre anni di carriera non avevo ancora pubblicato un vero disco, il che era una discreta anomalia nel panorama italiano. Per vario tempo avevo pubblicato solo singoli registrati tendenzialmente a bassa fedeltà e quando le cose avevano iniziato a girare avevo concesso al pubblico solo un EP. Alla gente che veniva ai miei concerti piaceva questo aspetto, creava una dimensione di appartenenza e io ci giocavo con piacere. Oltretutto Brenneke era molto meno pop rispetto a Brunori. Da Zero a Camden fino a Le Cose Lucenti, i miei live erano una roba indie folk che tendeva verso il punk e spesso verso il noise. Buttarmi in uno stadio ad aprire il re del rock radiofonico avrebbe senza dubbio rappresentato un tradimento per una parte di pubblico.
Mi misi all’ascolto di un segnale per prendere la giusta decisione. E non tardò ad arrivare, già qualche sera dopo, a Torino. Quella sera c’era la percezione che il concerto non ingranasse, come se tutti, pubblico compreso, avessero la testa da un’altra parte. Nel pomeriggio avevo letto un articolo sul nuovo Papa appena eletto, Bergoglio, e in un passaggio il fantasista autore dell’articolo scriveva che il conclave aveva finalmente trovato il suo “centro di gravità permanente”. Prima di cena mi ero messo a suonare la canzone in camerino, in una scarna versione chitarra e voce. Al momento di scegliere i bis, insoddisfatto dalla serata, mi ritornò in mente così andai sul palco e la suonai. Si smosse qualcosa, come se una barriera prima onnipresente fosse stata finalmente tirata giù.
Cosa aveva permesso di annichilire questa distanza? Battiato, certo, ma nello specifico era stato il centro di gravità permanente del suo messaggio musicale trasversale. Era stata la musica pop. La forza della musica pop. Anche se forse non tutti i presenti tra il pubblico conoscevano la carriera di Battiato, era come se la canzone stessa raccontasse il suo coraggio di artista, quell’epocale passaggio dal suono della ricercatezza al suono di massa fino alla creazione di un nuova sintesi; una canzone che suonava a tutti gli effetti come un invito. Fu una rivelazione che mi fece cogliere l’insegnamento di Battiato: mai avere paura della larghezza. Parlare a tanti e non a pochi può essere una buona cosa se rimani tu a decidere cosa dire. Mi bastava. La mattina seguente chiamai Tommaso: «Ci sto».
L’appuntamento milanese era per il 6 giugno.
Man mano che il tour andava avanti, iniziammo a cercare di capire come comunicare l’evento. Brunori puntò sull’ironia.
A fine maggio scrisse sui social:
“Il Liga mi ha chiesto un sacco di volte di poter chiudere i miei concerti allo stadio Olimpico e a San Siro. Ed alla fine gli ho detto di sì”.
Come prevedibile, fu sommerso dalle critiche, quelle che si sarebbero rivelate le ultime voci delle polemiche idealistiche del mondo indipendente. Voci che irritavano all’epoca tanto quanto mancano ora.
Io, che scelsi di non partecipare anche all’Olimpico soprattutto per onorare un concerto già fissato in provincia di Genova, puntai su un annuncio meno ammiccante:
«Il 6 giugno suonerò allo stadio di San Siro in apertura a Ligabue insieme al mio buon amico Brunori».
In accompagnamento misi una mia foto sulle tribune dello stadio vuoto, che gentilmente ci concessero di scattare un pomeriggio di sole.
Fu d’effetto perché divenne virale. Ma, come da previsione, anche io dovetti ripararmi da un’onda anomala di commenti negativi.
Ne ricordo ancora alcuni.
«Manco un disco e già venduto».
«I soldi lucenti».
«Un bel modo di autodistruggersi, bravo».
«Il duetto con la Pausini è dietro l’angolo».
Né io né Brunori rispondemmo nel merito a nessuna critica. Chiamati entrambi da non so quale programma di Radio Deejay, non controbattemmo ad alcuna domanda sulla questione. Anzi, decidemmo di puntare ancora di più sulla spinta all’evento come fosse una grande storia collettiva, raccontandolo quasi come se non ne fossimo protagonisti.
In collaborazione con Rockit, realizzammo una campagna in cui presentavamo i concerti con slogan sullo stile di “L’indie italiano prende l’autostrada per l’età adulta”. Disegnammo una grafica con i nomi Brenneke e Brunori accostati, in cui le lettere BR erano in comune, a caratteri enormi. Stavamo per comprare alcune pagine sul giornalino ufficiale del MI AMI, ma Rockit preferì tirarsi indietro quando si rese conto che l’effetto della grafica pareva creare un pericoloso richiamo alle Brigate Rosse. Poco male; il dibattito continuava ad animarsi.
Proprio riguardo al MI AMI io e Dario separammo la nostra strategia.
Lui era stato invitato per partecipare al festival proprio lo stesso giorno di San Siro e in un discreto colpo di scena aveva scelto di confermare entrambi gli eventi, lo stadio alle 18.30 e il MI AMI in serata. Mi fu avanzata una proposta analoga, ma declinai. Ero già in mezzo al tour, una totale sovraesposizione mi avrebbe messo a disagio
Ogni concerto di maggio celava una leggera ansia da prestazione in vista dell’evento a Milano, ma sentivo che il grosso del pubblico era dalla mia parte. Non mi accorsi nemmeno del mese che passava.
Il 6 giugno eravamo con tutta la crew all’ingresso artisti di San Siro. Tommaso uscì con la security a farci strada con il fiatone: «Siete in ritardo!». In realtà non lo eravamo, ma per chi lavora ad un concerto in uno stadio chiunque è sempre in ritardo.
Era un pomeriggio disperatamente caldo, del soundcheck ricordo solo la sensazione di scioglimento corporeo. Ad un certo punto parve che un pedale della Line6 che usavo come sequencer fosse sul punto di abbandonarci, stritolato dai raggi ultravioletti; fummo costretti a coprirlo con una coperta, all’ombra, per rianimarlo. Non un granché se in poche ore devi suonare di fronte a cinquantamila persone.
Mentre mangiavo una mela nel backstage, cappello con la visiera di fronte agli occhi, vidi muoversi sul pavimento degli stivaletti da Hollywood anni Settanta. Alzai lo sguardo ed era Ligabue. «Ah ma allora ci sei», mi fece. Era la prima volta che ci incontravamo. Ci mettemmo a parlare e gli raccontai delle polemiche a seguito dell’annuncio mio e di Dario. «Pensa che io ste cazzate con i polemici le ho dovute passare in Emilia nel 1989», «Eh Lucià, non c’era Facebook però».
Arrivammo a parlare di musica e fu sorpreso di scoprire che i miei suoi pezzi preferiti erano Figlio d’un Cane e Lettera a G, non brani granché noti.
Io di mio fui colpito invece dallo scoprire che aveva una grande conoscenza del mondo alternativo degli anni ottanta dai CCCP in avanti. Mi ricordò per esempio che il batterista dei Clan Destino, la sua band storica dei primi anni, era Gigi Cavalli Cocchi, successivamente con i CSI e spesso con Massimo Zamboni. Brunori aveva già incontrato Ligabue e pareva meno sorpreso di me nell’ascoltare queste storie.
Dario era un po’ agitato all’idea del ritorno serale al MI AMI. «Dopo tu te ne torni lì da tutti quelli dell’indie?» Gli fece Ligabue. «Ma altro che insulti, si son già scordati. Vedrai che ti accolgono come un generale di Cesare che torna dalla Gallia».
Poco prima del mio concerto, io e Luciano ci ritrovammo da soli a guardare lo stadio che si riempiva, da un lato del palco invisibile alla platea.
«A Correggio c’era un Cinema, il Sarti. Ci andavamo ragazzi a vedere i film di Fellini spiando dai buchi ai lati per non pagare, un po’ come ‘sti buchi qua da cui stiamo guardando lo stadio. Sai prima Edo quando ti dicevo dell’Emilia? Io non son mica più tanto sicuro che quegli anni lì siano accaduti davvero. Quelli tra i fossati della pianura, che i tendoni sale prove pieni di condensa e le bocciofile con il biliardino eran la stessa cosa. A volte credo di essermeli inventati tutti. Ho 54 anni, sono una rockstar ma io la musica rock l’ho beccata per caso che era quasi già bella che finita; chi fa la rockstar dopo i trent’anni? Non capisco davvero che cosa hanno da urlarmi tutte le sere tutti quanti loro, allora cerco di ricordare sempre chi cavolo ero prima di essere questo tizio sul palco vivo o morto o x. E lo ritrovo nel fumo del bar della Fulvia, con la madre di Molinari che ci urla “Oè, tot a ca’“ all’ora di cena. Suo nonno era l’eroe partigiano Leone Molinari lo sai? Quello di Faenza. E tutta sta roba io mi chiedo: ma c’è stata per davvero? Non è che lo immagino ora, ma che non c’è mai stato un me prima di questo e che il mio passato emiliano è tutta un’invenzione nella testa mia? Vorrei tornare a volte alle fette di torta dell’Ernesta, o a spiare quei film di Fellini dai buchi laterali dentro al vecchio Cinema Sarti che ti dicevo prima, col Bertino che faceva finta di niente mentre noi ragazzini stavam lì senza pagare. Ma mi assale il pensiero terribile che tutto questo non sia mai stato reale, un falso ricordo, un’esperienza introiettata. Non ci riesco a credere che ci fosse per davvero quella normalità, quella banalità rassicurante lì.
E se io fossi un rocker in eterno ritorno senza passato destinato sempre a questa curva, sempre a questo San Siro? Sai la scena finale di Blade Runner, quando c’è Rutger Hauer che fa tutto quel discorso sulle navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione e i raggi B balneare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser? Ecco io ho sempre pensato che in realtà lui, che è un replicante no, non ha visto proprio nulla di quella roba. Pensa di averla vista, in chissà quale esperienza o avventura, ma in realtà quel pensiero gliel’hanno ficcato dentro la testa e non aveva vissuto proprio niente. Ecco io mi sento un po’ come Rutger Hauer in Blade Runner. Io sono il replicante Edo. Comunque Brenneke è un bel nome».
Non appena finì il monologo mozzafiato, Ligabue si girò e se ne andò, lasciandomi interdetto e senza parole. Ero scosso, mi sentivo incapace di proseguire nel filo dei pensieri.
Tommaso venne da me di corsa. «È quasi ora Edo». La mia band iniziava a prepararsi per lo show. Al di là dei megaschermi, di fronte al palco, i cinquantamila rumoreggiavano inquieti.
«Ci sei?», «Sì sì» risposi. Ma in realtà non riuscivo a pensare al concerto. Ogni suono mi arrivava distante e appannato. Lo stadio mi pareva ora sfumato e senza contorni distinguibili.
Continuavo ossessivamente a domandarmi se non fossimo tutti replicanti.