E niente, c’è questa opera di Herbert Pagani del 1973 di nome Megalopolis. Fu scritta in parte con Ivan Graziani e venne presentata al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Pagani la registrò anche in francese.
È un disco veramente assurdo, una specie di concept album ambientato nel 1999 in un mondo divorato dall’inquinamento, portato alle tensioni sociali e ai cataclismi bellici mentre i protagonisti cercano di salvarsi riflettendo sulla loro natura di esseri umani. Viaggia tra la canzone d’autore e una strana forma di prog, in parte è un disco cantato e in parte recitato ed è davvero molto, molto attuale. Di fatto è un musical senza film. In qualche modo precede anche alcune cose di Elio e le Storie Tese.
Il brano finale che dà il nome all’album è una specie di fiaba inquieta di diciotto minuti che descrive nel dettaglio tutte le ultime fasi del tracollo.
Ho motivo di credere che quest’ultima suite sia ispirata a Goodbye and Hello (la canzone, non il disco) di Tim Buckley del 1967, anch'essa una mini opera, più breve, profondamente dinamica e immaginifica. Percepisco lo stesso andamento nel passare da un’ambientazione all’altra e anche un’eco nell’utilizzo della voce. Mi piacerebbe se qualche esperto di Pagani o di Buckley potesse darmi un feedback su questa mia teoria.
In Goodbye and Hello, Buckley cantava un testo scritto da Larry Beckett (che scopro or ora con gioia essere ancora vivente), costruito un po’ alla Dylan, che coglieva anch’esso la sensazione apocalittica di un’America politicamente sconsiderata e vigliaccamente forte con i deboli (ci ricorda qualcosa?).
Sia Pagani che Buckley chiudevano i loro apocalittici racconti con finali speranzosi, l’uomo che riscopre il proprio senso comunitario, che si riappacifica con la terra e la propria umanità.
Appena l’anno precedente a Buckley, il nostro Lucio Dalla anticipava di qualche anno Pagani scrivendo 1999. Musicalmente era pazzesca anche per gli standard internazionali, di fatto una fusione tra la psichedelia inglese e il soul, con parti di chitarra e di batteria che, fossero state suonate da Pete Townshend o Mitch Mitchell, sarebbero entrate negli annali del rock.
E poi c’è il testo. Pur pieno di tronche e sillabe brevi (adattato palesemente su un finto inglese in grado di contenere solo poche frasi corte), riusciva ad essere molto evocativo. D’altronde scritto da Sergio Bardotti, non uno a caso.
Anche in questo pezzo si narrava di questa umanità schiacciata da sé stessa alle porte del Duemila. Ma con un finale molto interessante, che dopo una canzone ‘di fantascienza’ torna nel presente. Il narratore, mentre siede sul tram, prende atto di sentirsi un nemico, ma a fronte della consapevolezza di detestare tutto quello che dice. Si sente nemico, ma di sé stesso. Praticamente è una canzone che usa il baratro dell’umanità come pretesto per raccontare un conflitto psicologico personale molto poco anni Sessanta e molto anni Duemila.
Balzo in avanti e nell’82 pure Prince fa un disco di nome 1999, ispirato alle profezie di Nostradamus sulla fine del mondo. Nell’interpretazione di Prince la fine del mondo del ‘99 è una festa sfrenata ed edonista, totalmente priva sia di conflitti che di tendenze salvifiche. Una ricerca all’abbandono collettivo attraverso i sensi e lo spasso.
Il 1999 è stato per lungo tempo il punto di arrivo su cui proiettare tutti i mali del mondo nell’immaginario collettivo. Già pochissimo dopo l’inizio del 2000 un po’ di Armageddon l’abbiamo pure percepito, ma alla fine in un modo o nell’altro sono passati 25 anni.
Non so bene come io sia finito a mettere insieme questi pezzi proprio in questo momento. Se guardo il mondo da tutti i nostri canali social, web, televisivi, telepatici ho l’impressione che alcuni degli scenari che negli scorsi decenni sono stati associati al 1999 sembrano prendere forma oggi.
Prima mi è venuto il dubbio che abbiamo semplicemente sbagliato a contare.
Ma poi ho pensato, non è che l’uomo ha molto bisogno di pensare costantemente alla fine del mondo per vivere al meglio nel mondo che ha?