Sto camminando sopra ad una superficie di cemento arancione. Sembra un enorme campo da tennis arido cristallizzato da un’esplosione nucleare cento anni dopo la scomparsa dell’uomo. È buio, fa freddo, il soffitto è basso ed è interamente composto da tubi che paiono consapevoli di minacciare i passanti. O di prenderli in giro. O di chieder loro aiuto.
È un luogo che non ha identità, non ha definizione e non è in connessione con niente. Un luogo che non è in nessun luogo.
È una sera di dicembre, un dicembre che ignora l’anno in cui cade. Ho in mano un sacchetto che contiene un dolce industriale impacchettato che credo sia buono. Lo scontrino è da qualche parte nella mia tasca.
Non sono solo, incrocio sguardi senza volti, nascosti da cappelli e mascherine. Le persone sembrano mosse da un motore immaginario esterno a loro. La loro coscienza è altrove, li segue garbatamente ma non vuole apparire. Non vuole partecipare.
Io invece vorrei partecipare. Vorrei avere un ruolo, in questo pluralismo di estraneità. Faccio la mia parte da buon cittadino abitante dell’igloo d’asfalto che sto attraversando. Cammino e provo a ricordare cosa cerco. Sto cercando di andarmene, ecco tutto. Di raggiungere l’esterno e ottenere il mio lasciapassare per la partecipazione.
Le mie mani iniziano ad arrossarsi dal freddo. Volto lo sguardo di qua e di là per scacciare il gelo e cercare lo stargate che mi permetterà di attraversare questo posto e rivedere il cielo che sta diventando nero.
Estraggo le chiavi della macchina dalla tasca e mi preparo ad premere il tasto di accensione per inseguire il bagliore delle luci come un faro sulla costa. Volto l’angolo e schiaccio. Niente. Gli unici bagliori che vedo sono quelli di altre auto, quelle di cosmonauti tanto fortunati da predisporre già la loro fuga nell’orizzonte della vita, lontano da qui.
La mia auto sembra sparita, fagocitata dalla labirintica geometricità di questa grotta interrata, in cui non esistono punti cardinali, non esistono riferimenti, tutto è un adesso generico e continuativo.
Mi giro, cammino, svolto un altro angolo, forse due e ripeto gli stessi gesti automatici. Sono meccanizzato, come un video in replay. Forse il motivo per cui non trovo la macchina è che in realtà la macchina sono io.
Mi giro di nuovo, impugnando la chiave come una pistola. La punto su niente e su tutto. La punto su una possibile soluzione, su un’alternativa a questo momento di stasi. Punto la chiave della macchina verso il futuro.
Il primo piano interrato in cui mi trovo mi apre al senso di tutte le mie ricerche.
Forse sto solo cercando di capire quanto assomiglio a questo luogo non luogo. Sto tentando di uscire o di restare qui? Cosa c’è là fuori per me? Dove sono le mie ambizioni? Cosa ho fatto quest’anno? Chi sono i miei amici?
Dov’è la mia macchina?
Lo spazio intorno a me sembra rimpicciolirsi, ed anzi sembra animato nell’atto di osservarmi. Ho l’impressione che mi stia chiedendo conto di chi sono e cosa faccio. Forse si aspetta delle risposte da me. Ma io ho solo domande.
Dopo un tempo indefinito, un bagliore mi chiama in un punto del tutto opposto a dove avevo tentato l’atto la prima volta. Qui ciò che era in un punto può essere altrove, una eterna divergenza, un valzer urbano grigio e misterioso.
Salgo sulla mia macchina. Appoggio il sacchetto con dentro il dolce sul sedile di fianco a me e la accendo.
Devo andare ad una festa.