Oggi una Ragnatele in equilibrio nel tempo libero della mia settimana in cui ho deciso come altre volte di schizzare alcune piccole istantanee flash; ho fatto anche il tentativo di essere BREVE, che per me non è facilissimo. Non so se ci sono riuscito ma almeno apprezzate lo sforzo ecco.
Vado!
Per prima cosa sono costretto a mettere in imbarazzo qualcuno, che spero mi perdonerà. Qualche sera fa sono andato ad un concerto, cosa che di questi tempi merita ancora di essere sottolineata. Ci sono andato da solo perché nessuno poteva accompagnarmi e questo mi ha permesso di lasciarmi ancor più trasportare dal mood autunnale della serata. Non ero mai stato all’Arci Bellezza e la sua atmosfera chic-cabaret mi ha coinvolto. Arrivo al punto subito: se ne aveste la possibilità, andate a vedere un concerto di Marta Del Grandi. Ha appena fatto uscire uno splendido disco di nome Until We Fossilize, sotto l’etichetta londinese Fire Records. Il suo live dell’altra sera è stato un grande ossimoro: un momento senza tempo. Dico solo questo: nessuno pareva avere il coraggio di estrarre il cellulare, anche solo per fare una story su Instagram. Qualcosa del genere di questi tempi io lo vedo solo in chiesa (anche se potrei sbagliare, non vado quasi mai in chiesa). Io ne ho fatta una, di story, e mi vergognavo come un cane per la paura di rovinare la sacralità del momento a tutti.
Non mi dilungo nel descrivervi perché Marta sia un’artista eccezionale, credo che la sua musica parli per lei.
Ci conosciamo da tantissimo tempo perché studiavamo insieme Jazz alla scuola Civica ma erano un sacco di anni che non ci vedevamo, né che la sentivo cantare e suonare dal vivo ed è stato molto bello anche dare una rinfrescata ai ricordi. Scusa Marta ho finito di imbarazzarti scusami ciao.
A proposito della Civica, ultimamente ho pensato spesso a quell’unico anno che feci da studente jazzistico, anche per via della recente scomparsa di Franco Cerri, che di quella scuola era direttore e mentore spirituale. Era circa…tredici anni fa (mioddio). Mi sentivo piuttosto annebbiato all’epoca, esistenzialmente parlando, ragion per cui i miei ricordi su quell’anno non sono mai stati molto nitidi. Ma negli ultimi mesi sono riaffiorate sensazioni più concrete. La vecchia sede milanese in piazzale Lodi non è molto lontana dalla mia casa attuale. Ci passo spesso ma non ho mai fatto una sosta per rientrarci. Vorrei farlo ma ho paura di non trovarci più nulla.
Ultimamente penso molto al canto. Non significa propriamente che canti in modo particolare, mi trovo soprattutto a riflettere sulla natura intrinseca di questa azione. E ho ritrovato un video che è un patrimonio della storia dell’umanità: Bobby McFerrin che a un festival di neuroscienze spiega la scala pentatonica suonando…il pubblico. Vi lascerà un curioso stato di beatitudine addosso per diverse ore. Nessun effetto collaterale.
É uscito il nuovo album di uno dei miei gruppi preferiti di sempre, già citato più volte qui, The War On Drugs, che sostanzialmente è la grande creatura collettiva di un solo artista, Adam Granduciel. La mia netta impressione era che dopo il disco live dello scorso anno di nome LIVE DRUGS Adam non potesse spingersi oltre. Mi pareva che avesse raggiunto la sua personale parabola di perfezione nella creazione di un fitto omaggio alla musica americana lungo dieci anni e quattro dischi. Durante il suo percorso è andato a mischiare riferimenti da decenni diversi in un unico grande viaggio che suonasse come un lucido sogno da sveglio. Temevo che non potesse andare oltre questo: avevo ragione.
Questo I Don't Live Here Anymore mi sembra purtroppo il primo disco opaco della band. I due singoli che lo avevano introdotto erano clamorosi, ma nella sua interezza non regge quell’intensità. Giusto così: non si può replicare la poesia a comando; la macchinosità che personalmente sento nella lavorazione di questo album fa risaltare ancora di più l’assoluta magica naturalezza di quelli precedenti. Nessun problema insomma.
Le eccezioni non mancano però. C’è un pezzo di nome Old Skin, ad esempio, la cui perfezione è quasi inquietante.
Ho scoperto in questi giorni (soprattutto tramite un post del sempre ottimo Carlo Bordone) che i War On Drugs hanno in Italia una folta schiera di detrattori, non me lo aspettavo e ci sono pure rimasto male. Amici detrattori, ma davvero vi lamentate di una band che sembra Dylan degli anni Settanta con come gruppo di supporto i Cure se ci fosse Max Weinberg alla batteria e le tastiere dei New Order? Ma non capite proprio un cazzo.
Torniamo al di qua dell’oceano. Vagabondando tra vecchie canzoni, ho riscoperto Panama di Fossati, che per un periodo ascoltavo moltissimo in questa versione live.
Ora, ditemi se non siamo dalle parti dei vertici assoluti del cantautorato italiano. Oggi nessuno scrive più canzoni che siano anche racconti. Non lo faccio nemmeno io, per dire. Forse dopo anni di (forzato?) astrattismo e cut-up senza avanguardia (insomma: testi scritti tendenzialmente a caso con la scusa del flusso di coscienza, sulla quale forse ci siamo un po’ seduti) si potrebbe riprendere a scrivere canzoni come racconti. Certo, per quel che servono le canzoni, ma questa è un’altra questione (sulla quale torniamo tra poco).
Ho rivisto dopo anni ma per la millesima volta Il Mistero di Sleepy Hollow. Al di là della bellezza del film, fin dall’inizio mi è partito un trip. Pensate se Tim Burton lo rigirasse oggi, con lo stesso identico cast (eccetto chi non c’è più, si intende). Un remake che però sia anche una specie di reinterpretazione concettual/teatrale dei personaggi. Tipo l’attore che fa il ragazzino che oggi avrà 35 anni ma che interpreta di nuovo comunque il ruolo del ragazzino, o Johnny Depp che ha 60 anni ma interpreta ugualmente il giovane impacciato scienziato. Io lo guarderei. Al che ho esteso questa idea a tutti i film del mondo. Perché i registi non si buttano in questa tendenza? Nel teatro ci sono attori che tornano sullo stesso ruolo per tutta la vita, perché nel cinema no? Qualcuno, che voi sappiate, per caso lo ha già fatto?
Ok, per chiudere faccio un paio di piccoli auto spottini, ma non vogliatemi male per questo, sono solo un umile abitante del web in cerca di fortuna.
Sono usciti due articoli a mia firma questa settimana che mi fa molto piacere condividere con voi.
Il primo è la piccola cronaca di un surreale colloquio di lavoro al quale avevo partecipato diversi mesi fa. Era stata un’esperienza che aveva accresciuto la mia curiosità a proposito del tema della manipolazione psicologica. Mi piacerebbe renderlo l’inizio di un’analisi più strutturata sulle sette nel tessuto lavorativo, ci costruirò qualcosa.
Il secondo invece sono i my two cents su un tema che ultimamente infiamma tutti gli addetti ai lavori musicali e gli elettori della Meloni: il successo dei Måneskin. Dopo alcune conversazioni avute con alcuni amici ho buttato giù due righe a mo’ di cazzeggio che poi si sono fatte più articolate. Mi sono accorto che il tema conteneva tantissimi sottogruppi nei meandri del significato odierno della musica. Cosa rappresenta la musica in un’era pandemica e alle porte del metaverso? Che poi è un altro modo per chiedersi, ma che cavolo ci stanno a fare gli artisti? Ha ancora senso parlare di arricchimento dello spirito nell’epoca in cui l’umanità è immersa in una unica entità che somiglia un po’ ad una gigantesca simulazione di Dio? A volte mi sento un po’ come un Dodo all’inizio del Seicento. Considero questo articolo solo uno sguardo in superficie di questi rompicapi: mi sa che ce n’è da scavare.
È quasi un anno che Ragnatele esiste e sto elaborando alcune riflessioni a riguardo. Intanto grazie a questa newsletter mi sono accorto che, in fondo, ascolto pochissima musica. Ma ne parliamo poi.
Cià!
Brennekedo