Ok non è vero, non ho mai suonato con Damon Albarn. Ma adesso siete qui, che vogliamo fare? Oramai siete entrati anche in questo numero.
Vi ho fregati, con la più puerile delle burle.
La storia è così. Non ho suonato con Damon (canticchiare all’unisono tra il pubblico durante un suo concerto vale come duetto? Vale come jam session? Mah ci rifletto), ma l’ho immaginato mentre scrivevo Aforismi.
È una canzone che misi nel mio primo disco e con la quale imparai molto del mio modo di scrivere. Penso di avere sbagliato qualcosa in quel pezzo ma sembra essere una paranoia soprattutto mia. Scopro spesso che è una canzone che piace alle persone. Direi quasi più di quanto piaccia a me.
L’ho casualmente riascoltata pochi giorni fa e non ne ricordavo alcuni dettagli che mi hanno sorpreso. Per esempio il giro di chitarra che prosegue da solo nel finale. La stavo facendo andare distrattamente sullo sfondo mentre facevo qualcosa e quel dettaglio ha attirato la mia attenzione. Incuriosito da una parte…che avevo scritto io.
Questo è il bello dell’invecchiare, dimenticare qualcosa che si è fatto e riscoprirlo dopo un po’. Magari tra 40 anni dirò: «Ah ma dai una volta cantavo?».
Ma andiamo con ordine. Nel luglio del 2014 vidi un concerto di Damon Albarn al Vittoriale di Gardone Riviera, il sobrio parco giochi di D’Annunzio. Quella sera, seduti vicini per puro caso, c’eravamo io, Elton Novara e Riccardo dei Belize. Che ve lo dico a fare, fu un concerto epocale. Io, che nella battaglia Oasis vs Blur avevo sempre tifato per i fratelli Gallagher, ne uscii frastornato.
Di Damon all’epoca conoscevo, oltre alle cose fondamentali dei Blur, soprattutto i dischi dei Gorillaz e avevo apprezzato il primo disco dei The Good, the Bad & the Queen.
Non avevo capito fino in fondo la sua visione contaminata fino a Everyday Robots, uscito quell’anno. Lo avevo consumato. Era praticamente la versione 4.0 di Up di Peter Gabriel. Di quel concerto mi mandò fuori di testa soprattutto l’uso molto misurato delle basi nell’equilibrio perfetto tra band e elettronica e la quasi totale assenza del basso a favore di una più stramboide chitarra baritona, suonata da un tizio stilosissimo di nome Seye Adelekan.
Nel pomeriggio beccammo anche Damon nel parcheggio del Vittoriale, appena arrivato e sceso dal tour bus. Un fan senza molta fantasia ma con molto coraggio attirò la sua attenzione suonando su una melodica (la tastiera piccolina con il tubo, la stessa che suona lui ogni tanto) la melodia di Clint Eastwood. «Hi, thank you, one other photo, yes, thanks, by by». Uno scambio dialettico indimenticabile.
Va beh, quella serata mi Damon Albarnicizzò per diverso tempo. Scrivevo cose e mi domandavo come avrei potuto portarle sui suoi binari più minimali, con quella tendenza a creare immaginari elettronici ma sempre molto umanizzati, sempre “pensanti” e con quell’emotività freak che sentivo in pezzi come Kids with Gun, 5/4 e Tomorrow Comes Today. Partì un po’ da lì lo stimolo per scrivere il giro di Aforismi. Che nacque essenzialmente per errore.
Nel mio studio (camera mia) avevo suonato una parte di batteria un po’ marziale, che nella mia testa doveva avere un che di storto, di suonato male, come se provenisse da un disco dei Pavement. Poi l’avevo messa in loop e ci avevo buttato sopra con la tastiera un Sol e un Mi minore semplicissimi.
Ci avevo poi trovato sopra un giro non male con la chitarra, in una tecnica che si chiama “armoniche”, che da spiegare è un casino.
In pratica è un modo di suonare con cui si può fare solo un numero limitato di note, che ricordano un po’ il suono di una goccia d’acqua. Con le armoniche avevo tirato fuori questo giro ossessivo che si ripeteva e che dava un senso di movimento solo in funzione del fatto che gli accordi sotto variavano.
Risuonai tutte le parti con una tastiera midi al computer e il risultato… era veramente stupido. Sembrava una specie di canzone giocattolo.
Non ricordo esattamente come andò ma, cercando una chiave che mi convincesse e che non fosse monotona, sovrapposi per sbaglio due parti diverse di arpeggio che non c’entravano nulla. Era stata una distrazione, stavo per cancellare quella mia piccola svista, ma ascoltai il risultato per curiosità. Finalmente funzionava. Le note si fondevano le une nelle altre creando un giro che iniziava come un loop ostinato ma poi andava verso delle variazioni geometriche che ne facevano un tappeto interessante. La struttura aveva una durata strana, perché un giro non era composto da otto battute, come ci si sarebbe aspettato, ma da sei.
Nell’intro misi una piccola drum machine con un colpo di cassa un po’ storto, in uno stile R&B moderno. Aggiunsi un basso molto saltellante, simil Cure, che enfatizzava le quinte e i cambi di accordo e misi dei violini super sintetici, che mi ricordavano in certi passaggi gli stacchi di Boris.
Tutti quei suoni plasticosi insieme creavano un bell’immaginario.
Era una specie di versione in 8 bit dello showgaze. Tipo Super Mario incontra gli Slowdive.
Damon aleggiava ovunque. La immaginavo proprio prodotta da lui, cantata da lui. La mia risposta Busto Arsizio Style a On Melancholy Hill.
Cercai di metterci delle parole ma non girava niente. Era difficile non solo immaginarci delle melodie ma anche immaginare un ritornello, perché non volevo rompere l’equilibrio dell’andamento. Quando ho pezzi del genere scrivo più o meno come i rapper in freestyle, ossia provo frammenti di sillabe e parole di senso (più o meno) compiuto, le monto insieme e faccio caso a quello che mi suscitano. Quando si scrive così è la base a fornire le sensazioni del pezzo.
A incuriosirmi fu una frase che non sapevo bene cosa volesse dire ma arrivò e mi girava:
Da quando ti svegli ed è di colpo già gennaio,
da quando nascondi i tuoi dipinti nell’armadio
e li ricordi un po’ a memoria e un po’ lasci fare al caso.
Siamo d’accordo che gennaio è il mese più brutto di tutti, sì? Ultime feste finite, con ancora addosso la sensazione tristissima del capodanno, fa freddo e soprattutto pur essendo il primo mese dell’anno è un finto inizio. Settembre è l’inizio vero, quello dei buoni propositi eccetera. Gennaio è solo uno messo lì a caso per farti venire l’ansia per i mesi che stanno galoppando. Ogni anno sempre la stessa cosa: oh no, è già gennaio.
Nascondere i dipinti nell’armadio penso che fosse un’immagine che si riferisse effettivamente ad alcuni quadri che avevo fatto in passato e che erano scomparsi. Uno, in particolare si era ficcato dietro ad un mobile e non l’ho mai più recuperato. È ancora lì credo.
La parte che mi divertiva di più era "e li ricordi un po’ a memoria". Perché ricordarli solo un po’ e non ricordarli e basta? E poi, cosa lasciavo fare al caso?
Quel verso mi apriva delle opzioni narrative e soprattutto un immaginario “casalingo”, dal quale poi saltò fuori quel verso sul divano.
Ricordi che per noi la noia era un rifugio eterno e adesso
è una storia che inizia al mattino e finisce dietro a un divano.
Un tempo la noia non era male, era essenzialmente il trampolino di lancio di un sacco di idee. Poi è diventata il male supremo da schivare e si è cristallizzata in una sensazione che proviamo tutti, quando a volte finisci la giornata, torni a casa e dici «Era tutto qui?». Non so ancora perché poi nella canzone si finisca Dietro un divano e non Su un divano ma era una cosa ancora più surreale e funzionava.
Dietro un divano in perenne attesa dell’idea geniale.
Poi arrivò la parte più importante:
Le stesse cose non finite che ci rendono concreti
e le cose completate che ci rendono più soli.
Cavolo questa era un po’ pesante, ma coglieva una mia preoccupazione. I progetti che abbiamo per le mani, gli obbiettivi che ci poniamo sono di solito gli elementi della vita che ci danno energia. Se le cose vanno bene, prima o poi quegli obbiettivi verranno raggiunti. E poi archiviati. Che cosa resta di quell’energia allora? Va semplicemente nella ricerca spasmodica di altri orizzonti? E allora a che minchia ci serve se tanto non siamo soddisfatti mai?
Nel finale una presa di distanza dal passato che suonava come una nuova consapevolezza:
Io ti capisco quando dici che nella tua
collezione personale di aforismi
non ti ci riconosci più.
Avete presente no, quella sequela di certezze che si va costruendo nella brevità di una vita poco più che ventenne, che poi ridimensionate perdono buona parte dei loro significati. Fanno anche un po’ sorridere.
Una volta assemblata la canzone parlava quindi della smitizzazione degli ideali adolescenziali, o almeno di quelli più scenografici, più superficiali.
La voce non aveva una vera e propria linea guida. Era più un misto di melodie diverse, una cosa che ho fatto spesso.
Il pezzo era bello, ma come detto faticavo a tirare fuori un ritornello. Quindi non lo misi proprio. Per tutta la canzone si susseguivano gli stessi tre accordi, il che era un po’ ripetitivo ma in quel periodo mi piacevano moltissimo le trame psichedeliche ripetute. Nelle ultime battute aggiunsi qualcosa per fare climax cambiando l’armonia. Per prima cosa misi semplicemente un La minore dopo il Sol, in un giro che proseguiva con Mi minore e Do. Era una soluzione talmente comoda che l’avevo utilizzata nei miei vecchi gruppi almeno tre volte. Più avanti l’ho usata pure nel ritornello di Compleanno e anche oggi la sto buttando dentro in una serie di pezzi nuovi. Massì.
In corrispondenza a questo cambio inserii un sacco di strumenti, tastiere, cori, chitarre arpeggiate pulite, chitarre rumorose di sottofondo e altro. La cosa più bella era il giro di chitarra sulle corde basse che si spostava sugli accordi con degli accenti stortissimi che imparai a rifare identici al basso ed enfatizzai con dei colpi di rullo. Quelle battute suonano ancora molto bene proprio per questa loro stranezza.
Il tutto si era oramai spostato dall’immaginario Gorillaz. Ero partito da lì ma avevo trovato qualcosa di mio, in cui l’elemento principale era probabilmente la voce. Anzi meglio: il testo.
Rimase una bozza per un po’ di mesi. Poi scelsi di metterla nel mio primo disco.
Registrai Vademecum del Perfetto Me io con l’eroico Frani, il cui contributo all’universo (tanto, posso assicurare) è troppo esteso per essere approfondito quest’oggi e merita ben altro spazio. Mi limiterò ora a dire che io e Fra ci eravamo conosciuti in un locale in cui faceva il fonico, mi aveva buttato lì se volevo registrare qualcosa e io avevo detto di sì. Non immaginavo mica che razza di amicizia epocale stavamo inaugurando.
Non variammo molto la demo di Aforismi, per non snaturarla. Ri-registrammo tutte le chitarre e il basso. Decisi di tenere solo le batterie sintetiche, ma per umanizzare qualcosina della parte ritmica chiesi a Teo di suonare il tamburello. Da allora ho campionato e riutilizzato quel tamburello un sacco di volte, AH!
C’è anche un altro elemento al quale sono molto legato di quel pezzo, una chitarra distortissima che entra di sfondo attorno ai 2 minuti. Suonai la parte sulla Gibson Explorer del mio amico Andrea con un big muff. Anche quel suono l’ho campionato e vistosamente riutilizzato. Nel mio disco successivo c’è uno strumentale di nome Spirance, completamente costruito su quella chitarra distorta passata attraverso un campionatore. Se si presta attenzione, si sente che i due pezzi sono imparentati.
Io e Fra ri-registrammo ovviamente anche le voci. Uscirono molto belle ma non riuscii mai a rendere come volevo. Penso che le take del provino, pur di qualità scadente, avessero un che di più rilassato e di più empatico.
Dopo l’uscita del disco mi domandai se l’assenza del ritornello non fosse stato un errore. Ricordo che ne parlai anche a Mob, gliela feci sentire e lui ascoltando gli incisi strumentali dopo ogni strofa mi disse: «Beh…è questo il ritornello». Un ritornello strumentale: un concetto geniale.
Ci feci addirittura una specie di video. Una cosa strana, la forma svuotata dell’omino sulla copertina del disco e all’interno una clessidra a bolle che andava al contrario. La ripresi in un campo agricolo dietro a casa mia. Era la mia versione di video low budget. Mi dicono che oggi questa cosa, fare video che assomigliano più a grafiche in movimento, è usata ad ogni livello del mainstream e si chiama Visual Video. Ecco che finalmente la mia natura di pioniere emerge in tutta la sua inesorabilità. Che poi io in realtà lo avevo rubato a Niccolò Contessa.
Ho suonato questo pezzo un sacco di volte, con tutte le mie band e spesso anche da solo. L’ho suonato spippolando con le basi in loop station o con la chitarra acustica. È raro che un pezzo con un’armonia ripetitiva, una melodia poco lineare e nessun ritornello riesca a stare in piedi chitarra e voce.
Di solito sono i pezzi in cui è più difficile mantenere il pathos, tanto che a metà sul palco ti ritrovi a pensare: «Ma perché l’ho messa in scaletta?».
E invece, evidentemente, questa canzone ha una capacità evocativa che trascende la sua struttura quasi respingente. Credo che il merito sia proprio delle parole.
Sta su senza sforzo perché, anche senza picchi emotivi, riesce davvero a raccontare qualcosa.
Non male per un duetto immaginario con Damon Albarn.