Ryan sale sul palco alle 20.30 annunciato da una voce fuori campo simile a quella che solitamente introduce i concerti del Neverending Tour di Bob Dylan. È vestito con un completo marrone e un papillon da padrino-cameriere o qualcosa del genere. Si lancia subito in To Be Young (Is to Be Sad, Is to Be High), ma suonata come se fosse Blind Lemon Jefferson o Son House. I primi tre pezzi si susseguono senza nulla più che la musica.
Ogni canzone una chitarra diversa, poi ritirate dal tecnico che le porta dietro le quinte per accordarle e le riporta a lui. Diventa in breve una ritualità che scandisce il ritmo della performance. All’inizio di Oh My Sweet Carolina Ryan si ferma e inizia a parlare con un tizio in prima fila che lo riprende con il cellulare. Chiede di non usare i maledetti telefoni tutto il tempo, lo provoca chiedendo come reagirebbe sua moglie se lui la riprendesse tutto il tempo, spiega che la tecnologia è figa e tutto quanto ma che stasera “it’s only us”. Praticamente è l’incipit emotivo di una serata assurda, surreale, intensissima. Funambolica. Nel vero senso del termine: per tre ore noi e lui saremo insieme un’unica cosa che cammina su una corda un passo via l’altro. A volte sembrerà cadere tutti insieme da una parte e a volte tutti insieme dall’altra, ma rimarremo sempre in equilibrio. Di fatto Ryan testa la capacità di condivisione di un gruppo di umani sconosciuti nel 2025. Se Dylan protegge il qui ed ora proibendo la tecnologia, Ryan lo protegge sfidandola. È un braccio di ferro continuo con l’evasione da algoritmo e il brain rot.
Il tizio in prima fila gli risponde pure. Ma Ryan non si scompone. Suona la canzone e poi lo invita sul palco per un selfie di pace: la prima dichiarazione di annullamento dello spazio tra artista e pubblico.
Come sempre nei suoi concerti acustici Ryan suona mantenendo al limite l’elettrificazione diretta tra strumento e impianto. Nessuna chitarra acustica è elettrificata tramite pickup, nessun microfono è diretto in faccia: dalla sua sedia suona con due microfoni panoramici che non riprendono le singole sorgenti bensì l’intero suo corpo. Non è una scelta casuale nell’impresa di contrasto alla tecnologia evasiva. È la creazione di una stanza con il suono, una stanza che si espande nel teatro cristallizzandosi in un’unico grande spazio del quale ognuno si sente via via sempre più parte: alcuni si sentono responsabilizzati, altri sviluppano man mano uno strano senso di confidenza spesso eccessiva, spesso anarchica.
Di fatto, il concerto si tramuta subito in un bizzarro esperimento sociale sulla tenuta delle reazioni emotive. Mentre Ryan inizia a suonare Shakedown on 9th Street, si ferma e inizia a parlare in uno dei suo caratteristici flussi di coscienza all’insegna del “fuck”. Quand’ecco che una ragazza dall’ottava fila gli mostra un cartello e lo illustra a gran voce senza essere stata minimamente invitata a farlo: dice che suo marito ama più la sua musica di lei. Ryan ne approfitta per aumentare l’asticella dell’assurdo e la invita ad approfondire la storiella. Lei è russa, lui è italiano, lui si chiama Dennis, lei Xenia. Sembra totalmente allergica all’imbarazzo, se potesse condurrebbe lei stessa il resto della serata mentre il pubblico è investito da un’ondata di cringe di difficile gestione. Ryan risponde a tono, si alza, si mette al pianoforte e improvvisa una lunga canzone su "Dennis and Xenia (anche se lui la chiama “Senia”)” che non vorrebbe concludere mai, e si rimette poi alla chitarra per proseguire Shakedown on 9th Street.
L’impressione è che ogni deviazione lo disturbi e al tempo stesso lo galvanizzi, che solletichi la sua insofferenza e al tempo stesso infiammi la sua curiosità e la sua creatività. Lui stesso fomenta questo aspetto ma è come fomentare due sé stesso diametralmente opposti: uno sempre in procinto di soffiare sull’aggressività e uno sempre in procinto di soffiare sulla commozione. Dopo ogni stranezza tra lui e il pubblico, le sue meravigliose canzoni assumono una funzione neutralizzante della tensione, creata e cercata a più riprese da Ryan stesso. Sono eseguite tutte con profondità e devozione, in quella semplice magnificenza senza tempo tipica del songwriting americano a cui lui ha deciso di dedicare la vita e per cui sfida da anni la propria tenuta psicologica. Ogni volta che Ryan inizia a suonare, il silenzio del teatro è totale. Non esistono i cori ai concerti di Ryan Adams, perché le esecuzioni somigliano più a delle meditazioni contemplative. Chi canta insieme a lui lo fa sommessamente, come in chiesa.
Parla e suona. Parla e suona. Scherza e stranisce la platea. A tratti la sua esibizione ricorda il cabaret, una specie di Pierrot della Carolina del Nord impegnato nella continua destrutturazione dell’idea standard di un concerto e la costruzione di un momento non decodificabile. Chiede continuamente al tecnico di portargli cose. Prima una Coca Cola, poi un caffè, poi un altro, poi un altro ancora, poi un bicchiere con quel che pare vodka e ghiaccio, alla fine della serata chiederà pure un bastone da passeggio. Prima di Sweet Lil' Gal (23rd/1st) si immerge nel racconto degli anni dell’eroina a New York all’epoca della sua scrittura e si rivolge al pubblico senza microfono per interi minuti. Solo, sul palco, raccontando di sé e della droga come di fronte a una manciata di amici. Poco dopo l’inizio del pezzo, a qualcuno parte un story Instagram a volume altissimo con un momento appena ripreso della serata; il suono digitale dell’armonica dalle casse di uno smartphone invade l’auditorium nel gelo. Ryan si ferma e nessuno capisce se possa essere sul punto di esplodere. La nuova assurdità per fortuna lo diverte ma ogni sviata crea percorsi alternativi di impossibile previsione e riprende a parlare a ruota libera per lunghi minuti. Riesce a portare a termine Sweet Lil' Gal (23rd/1st) con enorme intensità e finisce il primo set.
Il secondo set, ripreso dopo 15 minuti, inizia con qualcuno che gli spara un flash negli occhi. Ryan odia i flash, al pubblico è richiesto espressamente di non usarlo, ma non si scompone. Si tiene gli occhi qualche secondo, suona Ashes & Fire e chiede poi all’uomo del flash di scegliere se il pezzo seguente, Two, dovrà essere suonato al piano o alla chitarra (è scelto il piano). Dopo una incredibile Dear Chicago si alza e inizia Lovesick Blues di Elsie Clark ma dopo un strofa prende la via della scala nel teatro e risale via via tra il pubblico, cantandola senza amplificazione. Il pezzo seguente, I'm So Lonesome I Could Cry di Hank Williams, è suonato tutto quanto in mezzo alle persone, che colgono in sincronia che il tema del concerto è la perdita dei riferimenti. “Amo l’energia di questo posto, vorrei suonarci tutte le sere”, dice Ryan prima di una magistrale versione di Gimme Something Good, per qualche ragione suonata con stupendi inserti simil-flamenco apparentemente lontani dal pezzo e invece perfettamente incastonati.
Adams parla oramai con il pubblico come se fosse a una cena a casa una domenica sera e i presente gli rispondono allo stesso modo. Lui chiede cosa vorrebbero sentire, tutti chiamano canzoni. Qualcuno chiede Lucky Now. Ryan scherza sulla strana pronuncia all’italiana e improvvisa una canzone inesistente, anch’essa di nome Lucky Now. Poi mentre si accinge a iniziare quella vera, un ennesimo dialogo con un ragazzo in prima fila gli accende qualcosa. Il ragazzo chiede di poter suonare con lui. “Questo sta per diventare il più bel concerto del tour”. In un attimo il ragazzo è sul palco al posto di Ryan, con la sua chitarra a suonare Lucky Now. Ryan lo incita a suonare da solo perché vuole sentirlo. Il ragazzo è incredibilmente bravo, Ryan è sinceramente ammirato e da seduto gli armonizza le seconde voci con una fraternità davvero commovente. Il pubblico è totalmente in visibilio, ed è assurdo essere a un concerto in cui non immagini cosa avverrà il momento seguente. E dopo To Be Without You Ryan spara quasi sul finale ancora un colpo da maestro. Mentre chiede altri suggerimenti ha un’illuminazione (“Ok, ho la canzone giusta per stasera”), gira le pagine dei suoi testi e inizia gli inconfondibili accordi iniziali di Idiot Wind di Bob Dylan. Ovviamente è in riferimento (non esplicitato) all’epocale verso “They say I shot a man named Gray, And took his wife to Italy”. Stasera si inizia dal blues e si chiude a Dylan, una parabola che contiene tutta la materia di cui è fatta l’America. Alla fine, una bellissima e disarticolata versione di New York New York al pianoforte, forse ispirata nella sua non-forma dall’universo dylaniano evocato poco prima, precede l’accoppiata When the Stars Go Blue e l’immancabile Come Pick Me Up, eseguite in un semi medley dal portamento quasi liturgico.
Poi Ryan prende il suo bastone da passeggio, saluta tra gli applausi e se ne va. Lasciandoci nella nostra solitudine condivisa, nell’attimo prima del riorientamento. Senza sapere cosa verrà dopo.