Non capisco davvero perché dovreste leggermi. Sul serio, non ho molto in più da raccontare che non sia me stesso e l’egotismo imperante è il più grande problema, credo, del mondo di oggi. Tuttavia trovo bello e costruttivo il rapporto con le persone conosciute in questi anni grazie alla musica e al tempo stesso mi è sempre parso impersonale e meccanico comunicare semplicemente sui social network. Scrivere direttamente a chi ha la curiosità di leggermi con una newsletter mi piace molto di più e spero possa piacere anche a voi.
Non so se avrò una cadenza fissa, potrei trovarlo terapeutico e farlo ogni settimana, o potrei fermarmi dopo questo primo invio, per il quale tra l’altro devo trovare la grinta sperando che allo Spesa Sì di Città Studi non abbiano finito le Moretti da 66 prima delle 18.00.
(Non so nemmeno se lo invierò nel momento in cui scrivo, se vi è arrivato vuol dire che: sì ce le avevano)
Voglio cominciare parlandovi di Claudio Sciarrone. Per anni la mia principale ambizione nella vita è stata quella di disegnare i fumetti Disney. Da bambino ne ero sanamente ossessionato. Il mio idolo assoluto era Claudio Sciarrone, disegnatore di cui all’epoca non conoscevo nulla se non il tratto su foglio (che modo incredibile di conoscere qualcuno). Quando compravo Topolino, la prima cosa che facevo era sfogliare rapidamente per capire se almeno una storia era disegnata da lui. Se ce n’era una, era impossibile non accorgersene nell’istante preciso in cui cui si piazzava l’occhio sulla pagina. Un disegno pazzesco, dinamico, sottile, quasi Anime. Le sue tavole prendevano vita sul foglio, si muovevano, traboccanti di particolari, ogni immagine possedeva un guizzo che era una storia nella storia. Riusciva ad abbinare ai personaggi Disney caratteristiche da personaggi per fumetti di adulti. Riusciva a renderli epici, addirittura sensuali. C’era anche il suo genio dietro alla miccia che accese il progetto PK, l’albo a fumetti più fico del mondo, che dava al personaggio di Paperinik la dignità solitamente riservata a supereroi di Marvel e affini.
Ero convinto che fosse un autorevole signore di una certa età, ma all’epoca Claudio aveva circa 25 anni, ossia 6 anni in meno dell’età attuale di chi vi sta scrivendo (ARGH!). I grandi maestri come Giorgio Cavazzano sono intoccabili ma Sciarrone era Sciarrone. Di tanto in tanto mi è capitato ultimamente di interagirci sui social ed è sempre stato disponibilissimo, spero un giorno di scambiarci due parole dal vivo.
Ho scoperto tempo dopo che in quegli anni tantissimi bambini avevano sviluppato una passione per i suoi disegni, creando un culto silenzioso. Molti di loro fanno oggi parte della bellissima community Ventenni Paperoni, nei cui meandri vi consiglio di fare un giro.
Nonostante la mia ossessione per i fumetti e per Sciarrone quell’interesse si è sbiadito verso i 13 o 14 anni, per due motivi: la scoperta della musica e, suppongo, perché non mi ritenevo abbastanza bravo con la matita. Anni dopo, ma tantissimi anni dopo, tipo l'anno scorso, ho realizzato riflettendoci che quello che mi aveva sempre interessato davvero dei fumetti non erano tanto i disegni: erano le storie. Volevo fare lo sceneggiatore Disney ma non lo avevo mai capito.
Mi sa che è per via di quest’inclinazione che nell’adolescenza sono capitombolato in sceneggiature di altro tipo: le canzoni. In fondo la mia ossessione ha cambiato solo forma. Su Sciarrone ho tra l’altro anche scritto una canzone una volta, di nome per l’appunto I Disegni Di Claudio Sciarrone, che grazie a dio non ha mai sentito nessuno (nonostante il titolo fichissimo).
Da adolescente ho scritto decine di abbozzi in inglese e in italiano prima di arrivare alla prima canzone interamente scritta da me che abbia visto la luce.
2008, quinta liceo e la mia prima band: i Kellylynch. Il nome era preso da un’attrice americana. Mai capito se si scrivesse attaccato o staccato, penso che variassimo ogni volta. Soprattutto, mai capito il perché di questo nome; di certo nella nostra sala prove (la cantina di un luogo mitologico, il Circolone di Legnano) c’era un suo poster da tempi immemori.
Il gruppo era nato al liceo artistico Paolo Candiani di Busto Arsizio. Eravamo io, Amos, Lori, Teo e Riki. Teo potreste averlo presente se avete visto qualche mio concerto nel 2019: è il batterista che mi ha accompagnato per tutto quell’anno, nonché il produttore principale di Nessuno Lo Deve Sapere, mio secondo disco. Se siete di casa nel mondo musicale italiano, potreste avere presente anche Lori e Riki. Oggi fanno i registi in un collettivo molto fico di nome Bendo Films. Amos è invece un bravissimo architetto.
Dei Kellylynch ero il chitarrista e nonostante poco sopra abbia scritto “la prima”, tecnicamente era la mia seconda band, perché io, Amos e Teo ne avevamo una precedente durata ben 6 mesi di prove e un concerto, i Valerie Solanas, dal nome della donna che sparò a Andy Warhol. Con noi c’era anche il bassista Pietro, recentemente diventato prete. Non so perché tutti i nostri gruppi si chiamassero con nomi di donna, forse c’era un che di freudiano.
Ad ogni modo, i Kellylynch erano davvero fortissimi. Eravamo giovani e confusi, ma quello che facevamo, un indie rock in italiano con delle curiose incursioni strumentali in una specie di wave prog, ci avrebbe potenzialmente potuto far percorrere un bel po’ di strade in cui non abbiamo fatto in tempo ad avventurarci.
Della nostra breve storia ho alcuni ricordi bellissimi. Come i giorni di registrazione di un EP che poi non uscì mai (in quei tempi avveniva spesso), in uno studio di Piacenza perso nella campagna. Per quel disco girammo un video del nostro primo (e unico) singolo, Tutto A Caso, il cui protagonista era un divano di pelle che veniva trasportato per la città. Una volta partecipammo ad un concorso in cui gli artisti dovevano presentare una canzone scritta ad hoc contenente una sequenza di note uguale per tutti imposta dal regolamento. Immaginate decine di canzoni con lo stesso frammento di melodia all’interno, l’incubo della SIAE. Noi modificammo un nostro pezzo già scritto per inserirci dentro quel giro. Pensavamo di essere i più fighi, ma perdemmo miseramente e ci rimanemmo pure male.
A fine 2008 scrissi una canzone da solo. Si chiamava Caduta Simbiosi, titolo piuttosto stupido direi influenzato dallo stile degli Afterhours.
Ne esiste ancora una testimonianza sul tubo.
«Guardiamo come siamo arrivati in questo cadere dall’alto, leggiamo le scritte che abbiamo lasciato ognuno sull’occhio dell’altro, la mia gola mi sembra in fiamme, posso solo sentirne il calore, la vertigine probabilmente è tua ma resta mio il rischio di cadere. Caduta Simbiosi, ora probabilmente riesco a sentire che cosa voglia dire cadere»
Madò che pesantezza. Doveva essere davvero difficile avermi attorno in quegli anni lì. Cioè, non che oggi sia meglio.
Comunque. Nei Kellylynch scrivevamo un po’ tutti e così proposi questo abbozzo agli altri. Nella mia demo c’era decisamente l’impronta dell’alternative dell’epoca, soprattutto nel testo inutilmente apocalittico. Penso che parlasse della fragilità di alcune relazioni un po’ distruttive ma la verità è: io che cazzo ne sapevo a 18 anni? Mi sa che gira e rigira non parlava di nulla. E non parlava di nulla senza manco un po’ di autoironia!
Il pezzo piacque a tutti ma non piacque una mia pretesa a riguardo: volevo cantarla io. Non avevo mai cantato; suonavamo insieme da più di un anno e sentivo che quel gruppo era un ambiente protetto per mettermi alla prova anche in questa cosa. Dovete sapere che nei Kellylynch non c’era una vera regola sul cantante. Si alternavano Lori e Amos, e in una primissima incarnazione della band anche Riki. Credo che fosse un retaggio della comune passione per i Beatles, che come sapete cantavano tutti (a proposito, quanto è strano che in seguito ai Beatles nelle band si sia diffusa sempre più la norma di un cantante solo? Boh). Volevo cantare anche io insomma, ma gli altri volevano iniziare a definire meglio i ruoli e mi sa che avevano pure ragione. Facemmo una litigata in sala prove. C’era anche Giò quella sera, cugino di Teo e mio grandissimo amico. Per qualche motivo quel giorno aveva portato un casco giallo da cantiere che poi aveva dimenticato sulla mia macchina. È ancora da me (prima o poi te lo ridò Giò).
Nulla, alla fine non la spuntai. Le porte del mio paradiso da leader man non si aprirono. Ma oramai la canzone era uscita dal vaso di Pandora e i ragazzi giustamente la volevano tenere. Non mi fu facile, perché provavo un senso di appartenenza per le parole che avevo scritto ma lo accettai. L’avrebbe cantata Lori e discutemmo anche animatamente su alcune modifiche che voleva apportare. Avere un gruppo non è facile, ti insegna la nobile arte della mediazione.
Per mettere comunque una firma sul pezzo, sfoderai il mio Delay DE7 (capolavoro di pedale), era la prima volta che usavo degli effetti in un arrangiamento e mi sentivo The Edge o Andy Summers.
Quello che rimase dopo l’azzuffata fu una canzone che funzionava. Non era il nostro pezzo migliore, ne avevamo altri ben più belli, ma questo l’avevo scritto io.
Facemmo in tempo a suonarla dal vivo un po’ di volte, ma qualcosa mi era scattato dentro, accaddero altre cose e uscii dai Kellylynch nell’estate del 2009. Feci qualche casino perché non ero molto bravo a parlar chiaro all’epoca e mi sento ancora un po’ in colpa per come andò. Fu una decisione faticosa ma sentivo quell’esperienza conclusa.
Alla fine dell’anno, nello stesso periodo in cui iniziavo a suonare con un gruppo nuovo (altra grande storia di Rock’n’Roll), scrissi uno sfogo ispirato ad una ragazza che non mi si filava proprio e lo chiamai Zero, come la canzone degli Smashing Pumpkins.
«Sono un sogno fatto dentro un coma, mi vorrei svegliare ma non posso, sono un pellegrino nel deserto che non ha né amici né nemici oltre a sé stesso, vivo come avessi nel torace una pozzanghera di acqua sporca di quelle che restano nei bordi delle strade e quando piove tutti le calpestano»
Non che da Caduta Simbiosi mi fossi mosso molto a livello di autocommiserazione, ma perlomeno c’era qualcosa di più surreale e leggero tra le righe. La registrai in camera mia sopra ad una batteria finta fatta con FL Studio. Ora mi serviva solo un nome d’arte con il quale buttarla fuori. Vi parlerò meglio di quei mesi, per ora mi limito a raccontare che avevo iniziato l’università e Brenneke sbucò da solo da un libro di archivistica, esame che non riuscii mai a superare. Era un archivista tedesco del Novecento e mi piaceva l’idea di usare le canzoni come elementi di un archivio della varietà umana, o qualcosa del genere. In generale quel nome assecondava la mia passione per gli elenchi e la filologia, un tratto un po’ compulsivo che ho sempre avuto.
Brenneke era anche il nome di un proiettile da caccia ma non ci diedi peso. Anzi, un po’ mi gasava, c’era quell’irruenza tipica dei vent’anni. Mi sentivo politicizzato, volevo un’esplosione di significati. Solo che pochi anni dopo qualcuno inventò l’hashtag facendo sì che il mio nome d’arte sui social network venisse per sempre abbinato alle foto di animali morti assassinati, grazie internet.
In ogni caso c’è un equilibrio interessante tra il nome di un archivista e il nome di un proiettile, che sono quasi due cose agli antipodi. Probabilmente rappresentava un po’ il mio modo di concepire l’arte. E quindi eccomi lì, con un’identità segreta racchiusa in un nome con una k e tante idee per la testa. Alla fine il cerchio si era chiuso. Non ero diventato Claudio Sciarrone. Ero diventato Paperinik.
Ok, forse ho un po’ esagerato con le battute. Ma capitemi, era la prima volta. Potremo essere sintetici quando la parola lockdown non sarà più di moda. Fino a quel momento tanto vale non esserlo non vi pare? A chi di voi è arrivato fino a qui, grazie. A chi non ci è arrivato, grazie uguale, avete la mia comprensione.
Per insulti, recriminazioni, confessioni private, ricerche di lavoro o per noia da quarantena scrivetemi pure delle mail. Più lunghe sono, più sarò felice di leggerle.
Alla prossima,
Brennekedo