Quando studiavo all’università scoprii le opere e la vita del grande antropologo polacco Bronisław Malinowski. Prima di lui gli antropologi non lavoravano spesso sul campo, fu il primo ad incarnare il mito dello scienziato avventuroso che parte per mare verso paesi lontani. Trascorse due anni nelle isole Trobriand, in Melanesia, per studiare la cultura dei nativi ed era noto per la capacità di identificarsi in modo totalizzante con le popolazioni che indagava. Riusciva ad analizzarne le dinamiche sociali dall’interno comprendendole anche emotivamente: un acume e una cura dell’altro impressionanti.
Nel 1967 però, poco più di 20 anni dopo la sua morte, vennero pubblicati i suoi diari privati di quei viaggi, dai quali emergeva un pensiero un po’ diverso. In parallelo ai suoi scritti ufficiali, Malinowski aveva riversato per anni in altre pagine tutti i suoi sbalzi emotivi e le sue impressioni radicali e viscerali. Ne usciva da quegli scritti come un uomo spesso disagiato, livoroso e critico verso le persone con le quali aveva vissuto, facile all’insulto e parecchio intollerante. Clifford Geertz, altro grande antropologo, arrivò a dire che Malinowski aveva passato gran parte del suo tempo sul campo desiderando di essere altrove. Il suo mito di studioso dall’eccezionale empatia umana venne intaccato, ma risultò incredibile la sua capacità di scindere il lato di accademico da quello di uomo tormentato senza rinunciare a nessuno dei due.
Ecco, riguardo al mio rapporto con la musica io a volte io mi sento esattamente Malinowski.
Da un lato mi sento (e mi mostro) un musicista pieno di stimoli e interessi, da un altro mi percepisco spesso come un estraneo che si domanda se sia nel posto giusto e non è sicuro di nulla di quello che fa ed è. I due percorsi viaggiano in parallelo, e l’uno non esclude l’altro.
Addirittura ho qualche volta avuto il sospetto che a me non piaccia la musica.
Perlomeno non come mi illudo di credere abitualmente.
Ho iniziato ad analizzare questo dubbio quando mi sono reso conto che le mie aspettative non corrispondevano mai alla realtà e a questo seguiva sempre un certo fastidio. La musica fatta da altri ascoltata senza nessuno scopo particolare mi ha sempre entusiasmato in un modo semplice e spontaneo. Ma ogni volta che ho cercato di replicare quella sensazione con la musica fatta da me: ‘somma. È come far entrare un cerchio in un cubo. L’esperienza reale risulta sempre un’altra cosa rispetto all’immaginazione.
Spesso insomma ho pensato che, più che suonare, mi piaccia l’idea di suonare.
Credo in particolare che esibirsi dal vivo sia una cosa abbastanza innaturale e molto diversa da come si possa immaginare che sia osservandola da fuori; ho un rapporto davvero controverso con quest’attività. È decisamente l’anno giusto per parlarne, tra l’altro.
Quando vedi la band più eccezionale del mondo sul palco pensi: anche io! Che spontaneità e che semplicità! Poi ci vai, a suonare dal vivo, e ti accorgi che l’inquadratura del tuo cervello non slitta dal pubblico al batterista al grandangolo della sala e che il mix dell’audio non ti fa venire voglia di correre felice nel deserto. E’ un assoluto casino, quello che vedi lo vedi poco e quello che senti lo senti male, non avviene nessuna magia particolare che ti solleva e ti conduce in luoghi straordinari, tu sei sempre tu e devi cavartela davanti a persone che ti guardano, che possono più o meno creare una folla numerosa a seconda delle situazioni.
Devi muoverti fluidamente, devi agire, ma senza pensare. Devi trovare una zona di conforto soprattutto mentale in una situazione che però è tutto meno che confortevole. Chi è che ama essere giudicato da tanta gente che si aspetta che tu faccia qualcosa di specifico in un certo modo e se lo fai male dice «Mizzega ma che schifo»? Ma dai, è follia, solo ai soldati spartani poteva piacere una roba del genere.
Suonare dal vivo è difficile. Difficilissimo. È questo il motivo per cui mi accanisco a farlo? Ci rifletto da tanto tempo e…temo proprio di sì.
Un po’ lo odio, eppure non riesco a farne a meno. In qualche modo ha sempre dato una scansione alla mia vita da quando ho circa 17 anni. I periodi in cui ne ho interrotto la continuità sono sempre stati un po’ bui. Forse a suo modo è una forma di dipendenza, non lo so. Magari è un retaggio di qualcosa di atavico, simile al motivo per cui un tempo era normalissimo essere entusiasti di andare a fare la guerra, per stare con gli spartani. «Magari domani muoio male infilzato da qualcosa, non vedo l’ora». Può far ridere ma l’umanità è andata avanti così seriamente per millenni. Qualcosa dovrà pur essere geneticamente rimasto.
Un volta in un backstage prima dell’apertura a un concerto di Dente c’eravamo io e Elton Novara (sull’amicizia tra me e quest’uomo potrei scrivere una newsletter a parte), attendevamo tesissimi ciascuno il proprio turno di suonare e ci urlavamo l’un l’altro: «Ma ogni volta mi chiedo, perché lo faccio amico? PERCHE’?». Sembravamo formiche sotto LSD.
Della malsana idea di suonare dal vivo ne parlavo in un’occasione l’anno scorso anche con la mia cara amica Elisa Begni (che canta nei Bluedaze e hanno appena fatto un disco eccezionale). Siamo giunti alla rapida conclusione che ci deve essere una motivazione chimica per un atto così masochistico. Il rilascio di qualche sostanza soddisfacente.
Non c’è il pilota automatico, o se c’è è un gadget che a me la concessionaria non ha compreso. Proprio quando pensi che oramai lo sai fare, arriva qualcosa a ricordarti che puoi scivolare. È una costante lotta con il cervello, io la vedo un po’ così. A volte mi è capitato di avere degli assoluti vuoti di memoria sul palco proprio perché ero troppo sicuro di me o perché pensavo troppo. Mi capita quasi sempre di dimenticare qualche parola, entro certi limiti non è nemmeno più un peso.
Ma un’occasione emblematica e assurda è avvenuta proprio la sera che io ed Elisa discutevamo di quanto scritto sopra.
Lago di Varese, giugno 2019, concerto acustico in solo organizzato da Sottovoce e da Never Was Radio (Eli era lì proprio in veste di speaker perché l’evento era la presentazione dell’annuale festival della radio). Era una tiepida serata estiva, in un bellissimo giardino. C’erano un centinaio di persone, i posti erano limitati e io ero felicissimo perché era andato COMPLETAMENTE SOLD OUT (vorrei che il funeraaaale). Il secondo pezzo del mio set era Compleanno, che avevo cantato migliaia di volte negli ultimi mesi. Inizio con gli accordi, tutto ok. Mi ambiento, entro nella strofa. O meglio, dovrei. Ma dove sono? Ma quali sono gli accordi della strofa, erano gli stessi del riff? Oh no, ma dovrei avere già iniziato a cantare. A proposito: come inizia la canzone? Ma quali sono le parole?
Vuoto. Ma non solo le parole, anche la melodia, tutto. E non sapendo bene cosa fare, proseguendo a strimpellare ho detto la verità: «Non ricordo più le parole ragazzi». La gente si è messa a ridere e io anche, solo che…beh? Come la sblocchiamo? Eravamo proprio in un bello stallo alla messicana (non è vero, lo stallo alla messicana è un’altra cosa, ma volevo scriverlo).
Poi da qualche parte è arrivato: «La musica!». Sì ma quella è ok, qui il problema sono le parole. «La musica!», di nuovo.
CLICK! «La musica fa esistere il tempo». Qualcuno aveva beccato la canzone e mi aveva suggerito l’attacco. E via. Io e il mio cervello ci siamo stretti la mano e l’ho cantata tutta d’un fiato. Staccarsi di dosso la sensazione di una cosa del genere non è facile se uno ha delle alte aspettative sulle proprie esibizioni. Alla fine è andato tutto liscio quindi beccatevi questa:
In un’altra occasione ho avuto un blocco chitarristico da manuale. Dopo che con i Kellylynch era finita da un po’ di anni (chi di voi fighi ha letto la scorsa puntata sa di cosa parlo) facemmo una reunion durante un tributo a David Bowie. È un evento, il Back To The Stars, che viene fatto ogni anno dalla morte di Bowie e quell’anno era il primo, nel 2016 (ci ho poi risuonato l’anno scorso). Tra i vari pezzi affidati a noi c’era anche Young Americans, come backing band insieme ai fiati prodigiosi di Mike Pastori e Matia Campanoni. Alla voce c’era Walter Carluccio aka Walzer, personaggio leggendario compagno di tante serate, scorribande, imitazioni, follie, volto di impraticabili e surreali colpi di genio che non so manco descrivere. Se siete di Milano e limitrofi è facile che lo conosciate. Se no potreste avere presente quel gesto che spaccò la rete internet italo/iraniana meno di un annetto fa.
Ad ogni modo, in quel pezzo c’è un breve intermezzo strumentale a metà in cui a buffo una chitarra ritmica solitaria piazza una serie di accordi jazz per poi tornare sul tema principale. Il delegato a quel momento ero io, l’avevamo provata non so quante volte. Non mi aveva mai dato problemi. Poi arriva il momento, la band si ferma, tocca a me e…sparita. Goodbye. Me la sono cavata improvvisando ma è stata una fissa che mi sono portato avanti per settimane.
Cose come queste succedono ciclicamente.
Il motivo è che la mente vaga ed è dura da imbrigliare, fare “quello che sale sul palco” non implica anche “esserlo”. Non arriva un momento in cui si preme un tasto e magicamente si è quel che si vuole per un paio d’ore.
Ho scritto una canzone su questo tema, nata come una specie di filastrocca quasi scanzonata e in realtà divenuta qualcosa di più profondo con il tempo.
In origine era un piccolo insieme di loop di nome Lost&Cold. Lo avevo buttato giù cucendo un mio frammento di noise chitarristico su una stravolta batteria di When The Levee Breaks dei Led Zeppelin (giusto il pattern più campionato dell’universo). Era saltata fuori una cosa che mi faceva pensare un po’ a Moby e che per anni (forse 4 o 5) è rimasta nel mio hard disk.
Quando nel 2015 ho iniziato a selezionare roba per il mio primo disco (Vademecum del perfetto me) ho deciso di finirla e ci ho cantato sopra un brevissimo testo che mi era venuto in mente tre anni prima durante la registrazione di un disco dei miei amici Gouton Rouge di nome Cambiamo Casa EP, in cui io facevo i cori insieme a Elton in un pezzo di nome Settembre. Tra l’altro quell’EP aveva la copertina più bella della storia e il mondo deve saperlo, eccola qui:
Eravamo tutti da Teo, che lo produceva, e c’era anche Riccardo Montanari (anni dopo cantante dei Belize), quando pensai all’emblematicità dei tasti e a come doveva sentirsi l’essere umano prima di abituarsi alla prassi di schiacciare una piccola superficie per ottenere qualsiasi cosa. Quanto ci ha modificato questo gesto impercettibile? Intendo, nella gestione delle emozioni.
E allora l’ho scritta così:
Ho sempre pensato ci fosse un tasto, come per essere certo di accendermi a piacimento, come per essere certo di spegnermi a piacimento, come per tutte le cose degli ultimi del Novecento.
Non poteva essere più esplicativa. Mi piaceva la cadenza e la sillabazione. Nel finale però la portavo ad una conclusione tragicomica:
Ci sono giorni in cui, non la chiamerei una scelta, non faccio niente.
Insomma, la soluzione all’enigma era non provare nemmeno a risolverlo. Non riesco a passare da uno stato psicofisico ad un altro? Eh va beh, non lo faccio, ma non è proprio colpa mia. La chiamai un po’ a istinto 1997, un anno sul finire del secolo e che mi riportava all’infanzia. Il quadretto era finito lì, ma non ne avevo ancora colto appieno le potenzialità.
Poco dopo che quel disco era uscito, una persona che conosco solo un po’ mi ha scritto una cosa che mi ha dato da pensare moltissimo. Cito a memoria: «1997 descrive in modo molto delicato e preciso la mia depressione».
Ora, non so se questa persona, che se per caso stesse leggendo saluto caramente, avesse usato l’espressione “depressione” con una cognizione clinica o parlasse di un generico e diffuso senso di sconforto o tristezza, fatto sta che aveva evidenziato molto più a fuoco di me che quella che credevo fosse una piccola riflessione sul “progresso umano” era più probabilmente una piccola riflessione sul male di vivere. Sicuramente, tra quelle che ho scritto, è una delle mie canzoni preferite.
Dal vivo era davvero una meraviglia da suonare, con la mia band di allora, Pep alla batteria e Fry al basso (abbiamo suonato insieme diversi anni e ci sarà modo di raccontare moltissimo a riguardo). Era uno di quei pezzi in cui riuscivo ad usare la mia loopstation, mia fissa di quel periodo, davvero come uno strumento caratterizzante, parte imprescindibile dell’arrangiamento. E come non spingere sulla tecnologia in un pezzo che parla di progresso?
Sul Tubo è presente questa versione dal festival Woodoo del 2017, ripresa da SMOG (a proposito: ma qualcuno sa chi è SMOG?), in particolare ho sempre trovato stupendo il finale con l’elettronica che si rallenta come in un offuscamento mentale.
Ma tutto questo per dire cosa? Machedavèro, siamo passati dai concerti alla depressione, il cane nero, lo spleen, quella roba lì? Sul serio? Sì ma che sbatti, io mi disiscrivo.
E’ che in definitiva mi sa che c’è una certa linea di continuità tra quello che può affaticare nel vivere una vita di tutti i giorni e quello che può affaticare nel suonare dal vivo o fare qualsiasi altra attività che sentiamo di avere bisogno di fare ma che allo stesso tempo ci spaventa.
A volte è difficile vivere, ma lo si deve fare, in qualche modo.
Suonare non è altro che una rappresentazione di questo concetto. È una specie di esorcismo teatrale. A volte è difficile, ma va fatto, in qualche modo.
Suppongo che il mio accanimento nella musica sia un’alternativa al premere un tasto per cambiarmi da uno stato ad un altro, o cambiare chi mi ascolta da uno stato ad un altro. Perché un tasto da premere bello scintillante e rotondo, lo abbiamo capito, non c’è.
Ma bisogna accanirsi, proprio per tirare fuori qualcosa che un po’ ci assomigli a quel tasto, quel CLICK, che ti accende la lampadina e che ti muove. A volte spunta, lo becchi. Può essere anche qualcuno che ti urla «La musica» in un giardino.
Oggi siamo stati meno biografici e più introspettivi, ecchepalle lo so scusate. Ma qui siamo su Ragnatele: percorsi intricati, mica su Cerchi: percorsi lineari.
Grazie per essere arrivati fino a qui. E ora una sezione rubricosa.
Varie settimanali:
- È uscito il primo disco dal vivo dei War On Drugs, LIVE DRUGS: inizia con il pubblico in fade-in come nei dischi dal vivo di una volta, la copertina sembra un bootleg, ci sono molti dei loro pezzi migliori (seppur senta la mancanza di qualcuno che amo) e alcuni durano più di 10 minuti. C’è anche una cover di Warren Zevon. Il mixaggio è straordinario. IL MIO SOGNO. L’unico suo difetto è che finisce. Mi accingo a dire già che se fosse uscito nel 1984 sarebbe diventato uno dei dischi dal vivo più famosi della storia e di sicuro è una delle vette di tutto cantautorato americano “da stadio” di sempre.
- Mi è piaciuto molto il piccolo EP di iosonouncane. Novembre mi ha fatto pensare al De André di Non al denaro non all'amore né al cielo e la cover di Tenco mi ha preso anche di più. Io e il mio bassista polivalente Dani saremmo dovuti andarlo a vedere qualche mese fa, sigh.
- Bellissima la nuova canzone di Caso, Formiche. Inusualmente per lui, c’è un po’ di elettronica e direi che parla di suo figlio. Mi ha commosso un pochetto.
- Davvero bellona pure la nuova canzone de Il Triangolo, Messico. E’ un pezzo che definirei synth western, co-prodotto dai ragazzacci Montanari e Carlone. Bravi tutti davvero!
- Ho fatto alcuni giorni a tormentarmi con un pezzo dei Go-Betweens che volevo riascoltare ma di cui proprio non ricordavo il titolo. Non ero nemmeno più sicuro fosse loro. Poi l’ho beccata, Cattle And Cane (non è su Spotify perché curiosamente il disco che la contiene non c’è). Perché ve lo sto dicendo? Così. Nel cercarla li ho ascoltati molto, soprattutto 16 Lovers Lane, band straordinaria.
- Walzer mi ha ricordato un particolare su Caduta Simbiosi, di cui ho raccontato la storia la volta scorsa. I Kellylynch ne realizzarono una versione acustica proprio sotto il suo vigile occhio e quello di Gabri Bosetti, personaggio che rispunterà in futuro. La registrammo nella cantina della nonna di Gab (se non vado errato) e il padre di Amos suonò il violoncello. Avremmo dovuto metterla in quel famoso EP che mai uscì.
- Come tutti sono rimasto colpito dalla scomparsa di Maradona. Se come me non sapete un accidente di calcio vi consiglio questo articolo molto bello che avevo letto tempo fa, oltre che ovviamente il famoso documentario Maradonapoli.
Non so come ringraziarvi per tutto l’interesse e l’affetto che mi è arrivato questa settimana, siamo già quasi in 70 e non ci credo!
Alcuni di voi mi hanno scritto e mi ha dato una grande gioia.
Martedì ho pure fatto 31 anni, peso.
Ancora una volta ho esagerato in lunghezza. Va beh dai.
A presto ragazzi.
Brennekedo
CLICK!