C'è un fango che pare Woodstock. Almeno nel tratto da attraversare per raggiungere lo stand della birra. Che schifo la birra. Mi hanno rotto la birra, la cultura dell’alcol e dell'eventificio alcolico. Siamo la generazione che quando deve organizzare un festival, mancasse la birra il festival non si fa. Luppolo batte sempre valvole 30 a 0. Incontro Marta, mi dice che al circolo i ragazzi nuovi non bevono birra. Solo acqua o Coca. Ma è perché si fanno un sacco di cannoni.
Gironzolo. Non mi piace più stare in mezzo alla gente, non sono abituato. Vedo un tizio e lo riconosco come uno che ha recitato in in Generazione Mille Euro di Massimo Venier. Vorrei dirglielo ma mi vergogno e non lo faccio. Ma perché mi vergogno? Non lo so, è un'interazione umana che ha qualcosa che mi mette in una posizione di svantaggio.
Incontro anche altri amici, la Fra, Pep. Scorgo volti noti che non saluto. Aspetto Bianca in fondo e i The National iniziano spaccando le 21. Li ho amati una volta. Il volume è basso, la massa umana è collosa e mi fa provare una spiacevole sensazione di banalità. I The National sono fisicamente identici a 15 anni fa e anche il loro modo di suonare lo è. Mi scopro ad apprezzare questa fissità rassicurante. La gente è ferma e intorpidita e questo mi rende stranamente teso. Un tizio canta tutte le parole dietro di me, fortissimo, vicino al mio orecchio. È urtante. Non lo fa apposta: è una di quelle persone con la voce alta di per sé. Non sembra consapevole della sua presenza nello spazio e non pare considerare lo spazio altrui. Durante Demons arrivano Bianca e Claudio. Inizio a divertirmi e mi rilasso. Quando Matt canta “I Never married” durante Bloodbuzz Ohio mi ricordo che sono sposato, sei mesi oggi. Mi giro, chiedo al tizio di cantare più piano. “Questa non l'avevo mai sentita ah, sto a un concerto e canto”, mi risponde. Sfotte pure, è offeso. Ha un'accento umbro o toscano o una di quelle regioni cheddar li in mezzo che quando vogliono sentirsi un po’ stocazzo sono imbattibili. Si allontana. Ho vinto io e mi sento bene. Il concerto sembra lontano. Sbucano gli schermi dei telefoni. Depotenziano la mia mente, mi deconcentrano della musica e mi conducono forzatamente in connessione con le identità digitali degli altri. Una connessione che non ho chiesto e che non voglio. Il palco è grande ma inizio a vederlo da quegli schermini e mi sembra piccolo. Guardo gli hipster millennial italiani nei loro habitat e non empatizzo con nessuno di loro. Un tizio sta male, si crea un cordone sanitario diligente ed educato. L’ovvietà dell’educazione mi irrita ancora di più. Ma il tizio dopo poco pare stare bene.
Non ne posso più di questo senso di distacco, guido una rimonta verso il palco. Ci spostiamo davanti ma provo un grande imbarazzo. Non voglio disturbare, non voglio infastidire. Colonna a sinistra poi deviazione a destra e ci infiliamo in una piccola galleria umana, incredibilmente ci ricongiungiamo a Fra e Pep.
Incontro una ragazza che conosco ma ho la paranoia di disturbare la sua amica piazzandomi di fronte a lei. Vorrei sapere se la mia presenza ingombra, innervosisce, rovina un’atmosfera.
Scopro che nemmeno qui il pubblico è attivo. Da un lato mi sento sollevato: pensavo che il problema fosse mio.
Una coppia di fronte a me sta costruendo un privato rituale di partecipazione. Lei canta le canzoni vicino a lui con il trasporto un po’ spensierato di chi canticchia in macchina. Prende il cellulare. Story, foto, story, foto. Lo mette via. Lo prende lui. Foto, story. Matt sta cantando Day I Day. Lo mette via. Lo riprende lei. La mia mente non riesce a non calamitarsi sui loro piccoli film in lavorazione. Esco da questo momento, entro nella creazione dei loro micro loop voraci e divento anche io uno di essi. Distolgo lo sguardo ma incontro schermi uguali ovunque si posino i miei occhi.
Inizia Pink Rabbits. Lei rientra in Instagram, guarda le stories degli altri. Esce, va sulla bacheca e apre WhatsApp. Entra in un gruppo di cui non riesco a leggere il nome. Mi soffermo su di lui, che ascolta una strofa e poi riprende il cellulare. Story. Scrolla e scrolla. Entra in whatsapp. Apre una chat, scrive, lo schermo illuminato rivolto verso me. Non è più qui. È là. Nel Gruppo Meta. Ci sta portando anche me anche se io voglio restare qui. I The National sono solo uno sfondo per il dialogo ipnotico e galleggiante che questo povero diavolo sta avendo con Mark Zuckerberg. È immune agli stimoli del reale. E mi rende tale. Cerco di concentrarmi con tutte le energie della mia mente neurodivergente sui The National. Sulla voce di Matt Berninger. Mark Zuckerberg. Mark Berninger. Matt Zuckerberg. Zerninberg. Cazzo.
Sono un parafulmini per interferenze disattentive. Mi sento Alex di un innocua Arancia Meccanica. Cerco ancora di raggiungere la musica.
Comincia Graceless, penso a Carlotta a casa in reperibilità e spero che non la chiami l’ospedale anche stasera. Guardo il telefono, un suo messaggio. C’è scritto di girarmi perché ci sono dei nostri amici che mi hanno visto dal fondo. Sorrido e la musica mi muove una commozione mentre penso alla nostra vita. L’intensa commozione della normalità.
Ecco Fake Empire. Due ragazzi si girano e si fanno un selfie ma non esce bene e se ne fanno un altro. Non sentono l’inizio del pezzo, lo vedo nei loro sguardi mentre valutano la bellezza della foto appena scattata. Ma si voltano e continuano a guardare la band, con occhi aperti e vuoti. Mi viene in mente Eliana, che mi fece conoscere questa canzone quando si era ancora tutti molto giovani.
La gente canticchia, mandando avanti ancora Instagram. Piccoli vessilli in crociate medievali per conquistare non la Terra Santa ma la Media Chiara.
Mentre inizia Mr November mi rendo conto che forse è una delle canzoni più importanti della mia vita. Mi concentro pensando alle esperienze che mi ci legano. Ma non ne trovo. Ci sono solo io in metropolitana a 19 anni, che cammino e cammino. Verso dove? Nei ricordi manca sempre il punto di arrivo. Guardo il palco, canto, cantiamo tutti. Story, story ovunque, il pubblico hipster di Milano ora è vivo e il Gruppo Meta lo sorregge dalla fatica di una vita in Partita Iva. Ripenso a tutte le foto di Facebook del 2009. A quel tag nelle foto del Jail. A quel tag sbronzi all’Alcatraz a sentire Pete Doherty. Ti ricordi quel tag? Ti ricordi quel post?
Vorrei vivere questo momento realmente. Con me stesso e in connessione con la naturale essenza degli altri esseri umani, lo vorrei davvero. Ma non posso. Se avessi 19 anni e fosse il 2009 e fossi arrivato qui al Carroponte sulla metro con la faccia da bustocco qualunque a Milano ascoltando Mr November sì, potrei. Ma ciò che è stato è stato. Quel tempo è finito. Non mi è concesso di essere davvero qui. Non è concesso a nessuno di noi. Mi sollevo dalla responsabilità dell'imposizione, decido di lasciarmi non-vivere dal momento corrente. Accetto ciò che è. Guardo gli schermi degli altri e mi concentro come ho visto fare da alcuni monaci in Vietnam. Cerco la pace nella dispersione di energia vitale alla mercé degli algoritmi di tutti quanti. Finalmente sento una flebile connessione con queste piccole superfici illuminate, inizio a sentirmi io stesso trasformato in un'intelligenza artificiale mentre comincia proporzionalmente a sembrarmi che tutti gli esseri umani siano di conseguenza alieni. Delego alla musica dei The National la mia sola connessione con la mia antica natura biologica. "L'umanità è davvero strana" dico a mia sorella. Lei sembra capire.
Di colpo mi torna in mente la teoria del cervello in una vasca di Hilary Putnam. E capisco che ci aveva quasi preso, ma aveva sbagliato la prospettiva. Noi non vediamo la simulazione, vediamo la vasca. Lo creiamo tutti insieme, il cervello. Un’unica grande creatura multi-neuronale immersa in una vasca di musica e passato, che lancia segnali all'esterno attraverso sorgenti di input che spostano tutto altrove, cancellando la certezza del qui ed ora per frammentarla nei microcosmi digitali dell’infosfera.
I The National continuano. Hanno la stessa parte di batteria quasi per ogni canzone, come è giusto. Proseguo ad adorare che siano rimasti uguali in tanti anni. Così può risaltare ancora meglio quanto siamo peggiorati noi.
Parte Terribile Love e la gente riprende a cristallizzarsi in una strana indifferenza. Non capisco, è una delle canzoni più famose. La prima volta che li vidi all'Alcatraz nel tour di High Violet, Matt si buttò tra il pubblico durante questa canzone e uscì dal locale per non tornare più. Fu epico e rivelatore, una rivelazione di qualcosa che non ho mai raggiunto.
Dopo quasi due ore finalmente la folla pare disarmarsi con timidezza dalle sue sovrastrutture anagrafiche e algoritmiche. About Today spiana una concentrazione tale da permettere di udire il ronzio valvolare degli ampli sul palco e conduce a un canto corale, quello di Vanderlyle Crybaby Geeks, timido e incerto. Il canto di un bambino che impara a pedalare. Un gruppo umano che cerca di ricordare all’unisono il senso delle proprie capacità.
Il concerto è finito. È stato bellissimo, ho riso tanto, mi sono divertito, commosso, irritato e emozionato. Penso che i concerti oramai facciano schifo. E penso che in fondo lo sappiamo tutti. Questa sera ho visto diverse persone per cui provo affetto a vari livelli. Le ho contate. Dodici. Non vale poco: vale tutto.
Mi soffermo a parlare con gli amici, mi presentano persone nuove. Sento che sembriamo tutti più giovani dell'età che abbiamo davvero, ma forse è solo un’impressione. Dietro alla collinetta, di fianco allo stand delle patatine, sale del fumo illuminato. Mi ricorda una scena della Guerra dei Mondi.
Sono seduto su un vagone della linea rossa, guardo le mie scarpe sporche di fango. Poco fa ero in mezzo a un gruppo di signore spagnole ma facevano troppo casino e mi sono spostato. È tardi, domani devo andare al lavoro e a casa mangerò qualcosa. Mi spiace un sacco non aver salutato l'attore di Generazione Mille Euro.
Non riesco a smettere di pensarci.