Non credo che, di per sé, l’atto di rifiutare di cantare una canzone popolare sia sbagliato.
Il patrimonio popolare è lì per essere cantato o per non essere cantato, è lì per rispettare la libera scelta di tutti quelli che compongono una comunità. Soprattutto, la canzone popolare è lì per fare da parafulmine ai sentimenti di una società, accumulati nelle ere. Può sollevare, come nel caso di Bella Ciao, sensazioni politiche, ma non è obbligata a farlo.
C’è un sacco di confusione nelle polemiche sulla Pausini. Alcuni pensano che avrebbe dovuto cantare la canzone perché è un simbolo della nostra democrazia e della nostra Costituzione. Altri perché è semplicemente una canzone di sinistra e non cantarla è un gesto di destra. Altri sono contenti che non l’abbia cantata proprio perché è una canzone di sinistra.
Poi c’è qualcuno, particolarmente sensibile all’aspetto laicamente sacro di Bella Ciao, che sottolinea che anche rifiutarsi di cantare una canzone così importante fuori contesto (all’estero negli ultimi anni la canzone è famosa soprattutto per via de La Casa di Carta) sia un gesto con una sua etica.
Secondo me, da un certo punto di vista, sbagliano tutti.
Le prese di posizione più intransigenti sono quelle che mi infastidiscono di più, perché di Bella Ciao prendono in considerazione solo il significato politico. Ma il valore di Bella Ciao risiede soprattutto nel fatto che è prima di tutto una canzone. Con una vita propria indipendente dalla sua origine. Il suo significato politico c’è o non c’è a seconda della decisione di attribuirglielo.
Pif ha scritto: «Pensare di non cantare "Bella Ciao" per non voler prendere posizione, è una gran minchiata. Quando ti rifiuti di cantarla hai già preso posizione».
Una bella frase ad effetto ma che confonde un po’ le carte riguardo il concetto di patrimonio culturale collettivo. L’assioma che enuncia Pif non vale a prescindere.
Le canzoni popolari appartengono a tutti, non sono un dovere o una responsabilità. Bella Ciao è mia quanto di Pif o della Pausini, chiunque ha il diritto di disporne come meglio crede o come meglio sente.
Ecco, dopo questo piccolo inquadramento, mi sento di specificare che le più grandi cazzate sul tema le ha dette la stessa Pausini.
Si è difesa (come se dovesse farlo) dicendo che lei non canta canzoni politiche. Al di là del fatto che, come detto, Bella Ciao ha un significato politico solo se si decide che ce l’abbia, lei canta da trent’anni canzoni politiche; chiunque faccia qualcosa di pubblico compie un gesto politico. E la visione politica contenuta nella sua musica è chiarissima: parecchio conservatrice, con un inquadramento dei rapporti standardizzato su canoni inossidabili in cui i ruoli sociali sono predefiniti, i sentimenti sono predefiniti, perfino la sofferenza è predefinita; nulla deve urtare. La musica come un perenne laboratorio di non scelta. Esattamente come nell’episodio di Bella Ciao insomma.
Quindi ecco, la confusione mentale della Pausini si commenta da sé. È proprio per questo che sparare su di lei mi sembra un po’ come sparare sulla croce rossa: c’è da sorprendersi se la cantante più conservatrice d’Italia non sa maneggiare la canzone popolare, ossia quanto di musicalmente più importante possediamo? Io non mi aspetto niente di diverso, mica stiamo parlando di Milva.
La cosa bella di questa storia, però, è proprio nella storia in sé. Tutta questa caciara scaturita non dal potere delle semplici parole ma dal potere di una canzone…che non è nemmeno stata cantata! L’unico gesto è stato non accennarla ed è successo un casino: tutto questo è fenomenale.
È una grande vittoria della canzone popolare. Che scatena le emotività, scava nelle memorie e le nevrosi di un popolo ma poi fa quello che vuole, diventa quello che vuole, senza lasciare mai nessuno indifferente.
Ancora una volta, insomma, la canzone popolare è passata. E tutti si sono alzati.